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Alla vigilia della Giornata mondiale del 2 aprile il pool di medici creato dall’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute diffonde podcast e video tematici. Per far crescere la consapevolezza e spezzare la solitudine. Aumentano i casi ma i servizi per le famiglie sono del tutto insufficienti Le iniziative del Tavolo Cei con gli specialisti del settore
La Giornata mondiale sull’autismo, il 2 aprile, anche quest’anno ci ricorda che siamo di fronte a una emergenza sociale. Per capirne la portata basterebbe dare un’occhiata ai dati: più di un bambino su cento ha un disturbo dello spettro autistico; in Italia, come riporta tra gli altri l’Istituto Superiore di Sanità, lo è un bimbo su 77. Eppure, nella quotidianità l’autismo non sembra interessare granché: sul territorio mancano infatti centri, specialisti e percorsi specifici, e così spesso le famiglie, disorientate, provano a barcamenarsi, magari mettendo mano al portafoglio.
Ecco perché gli esperti del Tavolo sull’autismo dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Cei – specialisti e responsabili di strutture che erogano migliaia di servizi nell’ambito dello spettro autistico – hanno deciso di mettere a disposizione la propria esperienza e le competenze, per rispondere alle domande più frequenti, rivolgendosi ai genitori ma anche agli insegnanti e agli specialisti del settore, con una serie di podcast e di video tematici. «Abbiamo realizzato “I colori dell’autismo”, una miniserie tv per i social, trasmessa anche nelle televisioni cattoliche, per aiutare le famiglie ad affrontare i problemi che si vivono ogni giorno quando si ha in casa un bambino con spettro autistico – spiega il direttore dell’Ufficio Cei, don Massimo Angelelli –. In alcune regioni mancano strutture sanitarie capaci di fare diagnosi, e a volte non esistono neppure i servizi sanitari dedicati. Questi ragazzi vengono seguiti fino alla maggiore età, poi il Servizio sanitario nazionale offre molto poco».
Per gli esperti del Tavolo Cei uno dei primi ostacoli con cui fare i conti è la diagnosi: «Quando le mamme sono preoccupate hanno ragione, checché ne dicano a volte i pediatri, che molto spesso le considerano ansiose e finché non vedono dei segni molto chiari tendono ad avere un atteggiamento di attesa – ammette Raffaella Tancredi, direttrice dell’Unità Autismo e disturbi della condotta alimentare dell’Irccs Fondazione Stella Maris di Pisa –. Purtroppo, è un atteggiamento rischioso, perché avere una diagnosi precoce permette di capire e gestire le problematiche e di avere quindi un’evoluzione sicuramente migliore». I sintomi precoci del resto ormai sono noti: «Bisogna prestare attenzione al fatto che il bambino non risponda quando è chiamato per nome, già dai 10-11 mesi – mette in guardia la neuropsichiatra infantile –. Poi è importante il contatto oculare, il fatto cioè di guardare o meno negli occhi, oppure non sviluppare i gesti per richiedere, ma anche il “ciao”, o il “batti batti le manine”, movimenti che i bimbi piccini iniziano a fare abbastanza precocemente». Se non accade «il bambino deve essere indirizzato a uno specialista, ossia il neuropsichiatra infantile. Poi, è necessaria una valutazione multidisciplinare in cui ci siano lo psicologo, il logopedista, lo psicomotricista ». Ma a questo punto la strada è spesso in salita: «L’autismo rappresenta una sfida pure per il Servizio sanitario, perché in alcuni casi si accompagna anche a manifestazioni genetiche complesse, e quindi sono necessarie grandi tecnologie, competenze specialistiche, ma anche un processo di cura continuo e sistematico – precisa Massimo Molteni, neuropsichiatra infantile e direttore sanitario dell’Associazione “La nostra Famiglia Irccs Eugenio Medea” –. Purtroppo, il Servizio sanitario nazionale, specialmente per i disturbi che durano tutta la vita, è in grande difficoltà». Manca infatti un percorso specifico adeguato: «Il nostro Ssn non è costruito per tenere insieme tutti questi aspetti – rimarca Molteni – e di conseguenza le persone che curano, gli autistici e le loro famiglie, si trovano a volte confuse e disorientate, perché non hanno tecnologie e competenze di cui avrebbero bisogno. D’altro canto, sentono la mancanza di una continuità e di una relazione di cura che li accompagni negli anni e cerchi di dare il massimo disponibile per recuperare alcune funzioni, o comunque per trovare la migliore qualità della vita. Invece sempre di più siamo avviati verso gli algoritmi».
Proprio sulla qualità della vita gli esperti del Tavolo Cei stanno lavorando a uno studio specifico: «È importante porre al centro la persona con autismo, partendo dai suoi desideri, dai bisogni, dalle aspettative, per mettere in moto un meccanismo che ne valorizzi le potenzialità – dice lo psichiatra Sandro Elisei, direttore scientifico dell’Istituto Serafico di Assisi –. Spetta a noi professionisti della salute costruire un percorso in un’ottica meno medicalizzante, più centrato sulla persona ». A partire dalla scuola, ma poi anche nel mondo del lavoro. «Ogni progetto riabilitativo in genere si costruisce partendo dal disagio – precisa Elisei –. La nuova visione legata al decreto legislativo 62 del 2024 mette al centro invece il progetto di vita, si parte dunque dalle aspettative, da quello che piace alla persona. L’obiettivo è valorizzare gli aspetti positivi, in una nuova prospettiva che dia risalto ai talenti». Intanto però preoccupa la diffusione dei casi. «L’impressione è che non si tratti solo di un aumento di diagnosi ma che ci sia un aumento reale – sottolinea Stefano Vicari, direttore di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma –. E questo perché i fattori di rischio alla base dell’autismo, ormai in gran parte noti, stanno aumentando notevolmente. Oltre al rischio genetico, pensiamo al fattore ambientale, oppure al basso peso alla nascita, o la prematurità. Studi recenti indicano che circa il 10% dei bambini gravemente prematuri hanno un rischio di Adhd – disturbo da deficit di attenzione – e di autismo. Poi, l’età paterna superiore ai 50 e materna al momento del concepimento superiore ai 40 aumentano il rischio». Senza contare poi, l’obesità materna durante la gravidanza, l’ipertensione gestazionale, l’esposizione durante la gravidanza ad agenti inquinanti. «Sebbene siamo diventati abbastanza rapidi nel fare diagnosi – denuncia Vicari – non ci sono però sufficienti centri pubblici per poter svolgere terapie efficaci per la cura dell’autismo. I centri di neuropsichiatria infantile fanno fatica ad accogliere le richieste perché sono stati smantellati sul territorio nazionale. Le cure quindi se le paga solo chi può. Noi viviamo l’emergenza senza però poi mettere a regime un sistema che possa garantire a tutti le cure necessarie».