Alla democrazia serve che i cittadini possano esprimere liberamente la propria opinione e che ci sia una qualche rispondenza fra quest’ultima e le decisioni politiche, fatte salve questioni che si è scelto di porre fuori dal gioco della maggioranza e della minoranza – come i diritti fondamentali nella nostra Costituzione.

Ma alla democrazia serve pure che nessuno possa determinare di che cosa si debba parlare e che cosa debba invece passare sotto silenzio. Non sarebbe democratico escludere un tema dalla discussione e dalla decisione – stabilire per legge, per esempio, che un certo argomento non si possa discutere in parlamento (fatti salvi limiti riconosciuti e generalmente relativi ai diritti della persona, per cui ovviamente non si discutono faccende private o lesive della reputazione).

Le prerogative del cittadino democratico non sono solo votare, partecipare in altre forme, riflettere e discutere. Fa parte della cittadinanza attiva anche fissare l’agenda, porre dei temi alla discussione ed eventualmente alla decisione. Questo è il compito assegnato, per esempio, ai referendum o alle leggi di iniziativa popolare. Questo è il compito cruciale della sfera dell’opinione pubblica, di quel circuito di cui fanno parte la stampa e i vari media e i cittadini e le cittadine riflessive. Eppure, è proprio in questa sfera che agiscono meccanismi potenti che distorcono la discussione e, alla fin fine, la decisione democratica.

Distorsione del dibattito

Quello che si è visto nella settimana passata, con la discussione sul Manifesto di Ventotene innescata dalla provocazione di Giorgia Meloni, è anche una sottile, ma potente, distorsione della discussione pubblica. Con una mossa abile, Meloni ha rilanciato l’effetto della manifestazione di piazza del Popolo, provando a invertirlo e volgerlo a favore della sua narrazione. Non sto dicendo che non si doveva reagire. Ci sono provocazioni che colpiscono simboli o punti delicati che vanno difesi sempre, e l’antifascismo e l’europeismo ne fanno parte.

Tuttavia, rispondere alle provocazioni, anche quando il silenzio sarebbe complice, significa rimanere preda del meccanismo della provocazione. Significa cioè seguire il provocatore sul terreno dove egli decide di farci andare. Anche quando è inevitabile, è comunque farsi preda del dominio comunicativo del provocatore.

Si è in preda qui a un paradosso. Se non si parla di quello che chi è capace di determinare l’agenda vuole che si parli si è inermi, noncuranti o peggio complici per omissione. Ma se se ne parla si diventa preda dell’arbitrario atto di determinazione dell’agenda. E si diventa complici dell’omissione inevitabile che ne deriva, l’omissione di temi magari meno cliccabili, meno sexy, ma forse politicamente più rilevanti e necessari.

La provocazione è un furto d’attenzione e l’attenzione è la moneta sonante della cittadinanza attiva. Il governante che attragga l’attenzione dei suoi elettori su certi temi per nascondere le sue mancanze in altri distorce i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e quindi della democrazia.

Il ruolo di ciascuno

Occorre distinguere i ruoli. Per un politico rispondere può essere un dovere necessario. Se non lo facesse, verrebbero colpiti simboli e valori che è suo dovere proteggere, anche alzando la voce. Ma spesso fare il proprio dovere non è a costo zero. Il politico che viene provocato è comunque al traino del provocatore. Egli o ella non ha colpe.

Ma la cornice comunicativa, che comunque contribuisce a costruire, ha dato al provocatore modo di innescare l’arma di distrazione. Almeno bisognerebbe rifletterci. Non inseguire la destra, ma dettare l’agenda dovrebbe significare soprattutto questo: rendere impossibili, improponibili o presto spuntati i trucchetti retorici su cui la destra al governo costruisce la sua durata e il suo consenso.

Per chi lavora nel mercato dell’informazione, pur con tutti gli scrupoli e le cautele, tirarsi fuori è impossibile. La testata o la piattaforma che bucasse completamente l’ennesima provocazione otterrebbe solo l’effetto di venire registrata dall’utente medio come manchevole, tarda, inaffidabile. La buona informazione può cercare di evidenziare inchieste e scoop alternativi, cercando di catturare l’attenzione. Ma non può bucare nulla, pena la perdita di posizioni.

Ma ci sono poi i lettori e le lettrici. Loro sono liberi e hanno la forza dei numeri. Possono rendere irrilevanti certe provocazioni semplicemente non cascandoci, semplicemente sostenendo chi li decostruisce ed evita di amplificarli, semplicemente provando a parlar d’altro e a pretendere che si parli d’altro. Il Manifesto di Ventotene non si tocca.

Ora parliamo una buona volta delle oscillazioni di Meloni sulla difesa europea, della sua strategia per proteggere la nostra economia dai dazi, e di altre amenità simili? La smettiamo di cliccare sull’ennesimo commento? (E il paradosso, ovviamente, riguarda anche chi scrive quest’articolo).