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Dopo avere scritto Se questo è un uomo, testimonianza la cui straordinarietà in principio non trovò purtroppo presso gli editori italiani l’immediata accoglienza che meritava, per alcuni anni Primo Levi non rilasciò interviste. Da un certo momento in poi, i suoi libri erano ormai tradotti in tutto il mondo, accettò invece di farne molte. In una (televisiva) racconta di viaggi compiuti in Germania in missione di lavoro per il suo mestiere di chimico.
Racconta che i suoi interlocutori ogni volta si sorprendono del suo tedesco fluente, quella lingua dominata negli usi più quotidiani e concreti. « Il tedesco? l’ho imparato ad Auschwitz» rispondeva Levi ogni volta, e allora l’interlocutore di turno annaspava, e la conversazione si arenava in un silenzio gonfio di disagio. Quell’alludere alla sua atroce esperienza nel campo di sterminio era una dolorosa libertà. Svolta del raccontare: libertà che proprio l’avere dato forma scritta ai propri ricordi più angosciosi ha concesso. Nella stessa intervista, Primo Levi spiega una doppia forma di memoria.
C’è il ricordo lontano nel tempo dell’abominio vissuto ad Auschwitz, dice. E c’è il ricordo sempre vicino per l’avere scritto di quella terribile esperienza.