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19 Aprile 2025Sulla panchina con il cantante Utësov e poi la statua del temerario Utochkin. Gli eroi di una città deserta
Sotto le mie finestre, nel pieno centro, dalle 3 e mezza i camion della pulizia, che innaffiano e spazzano, non fanno che passare e ripassare, impressiona questa cura delle strade e ancora più delle aiuole, tutte fiorite, viole tulipani peonie rose narcisi, e non è per i turisti, che non ci sono, e anche i cittadini pochi. E’ perché i fiori fioriscano. Cammino e la vita cittadina non ricomincia affatto: per più di un’ora non vedo anima viva, se non di passeri piccioni e rarissimi gatti, poi le prime persone imbacuccate e svelte che vanno forse a preparare l’apertura dei bar, e spazzine e spazzini, silenziosi, e finalmente, dopo le sette, le signore e i signori col cagnolino. Se non fosse buffamente prepotente, potrei dire che ho Odessa tutta per me. Me la prendo, comunque, il pieno sorgere del sole dall’imbocco della scalinata, e l’abbaglio doppio nello specchio del mare. Vado al giardino di città, che è il vero ombelico di Odessa, col gazebo per la musica all’aperto. Risale al fratello minore dei De Ribas “napoletani”, che nel 1806 per far fronte alle spese lo regalò alla città. Là troverò qualche santo bevitore, o un poliziotto, un soldato, o la vecchina curva che parla da sola e fuma una perenne sigaretta: macché, non c’è nessuno. Buon segno, del resto. La fontana, che ieri sera zampillava scintillante per il giovedì santo, è spenta, le panchine desolate. Non c’è anima viva ma ci sono le statue, e le statue hanno un’anima. Non sono solenni né marziali qui, manca il marmo, sono domestiche, musicali, letterarie, sportive. Emulano le panchine, bronzo contro legno, c’è la Dodicesima sedia del romanzo di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov, opera di Misha Reva, c’è la panchina di bronzo sulla quale è seduto Leonid Utësov, opera di Alexander Makarev (2000). Sono fatte perché la gente ci si sieda e ci si fotografi, io no, ci mancherebbe, ma ora non mi vede nessuno, e mi accomodo accanto a Utësov, la sua mano destra di bronzo quasi sulla mia spalla, il mio naso rosso per l’aria frizzante il suo naso giallobrillante per gli strofinamenti degli ammiratori. Utësov (1895-1982), odessita, ebreo, vero nome Leyzer Vaysbeyn, è stato il principe dei cantanti e degli attori, l’introduttore del jazz in Urss, nei Venti, il beniamino incolpevole di Stalin, l’Artista del Popolo nel 1965, e soprattutto il cantore di Odessa. Il disco di “Mishka l’odessita”, uscito nel 1943, era stato deplorato dal Presidium dei compositori sovietici, come ricorda Misha Poizner: “Carenze ideologiche ed emotive”, “idee borghesi sulla vita”, “il sentimentalismo di un valzer da salotto”. Con la musica di Mikhail Valovats, le parole di Vladimir Dykhovichny raccontavano “un ragazzo nudo nella bellissima Odessa, ampi estuari, castagne verdi, fin dall’infanzia un vero marinaio… Sei un marinaio di Odessa, Mishka, un marinaio non piange, e non perde mai il buon umore… E lasciando cadere le rose a terra – un segno del suo ritorno – il nostro ragazzo non riesce a trattenere le lacrime, ma questa volta nessuno dirà nulla”. “Nel marzo- aprile 1944, volantini con il testo di ‘Odessit Mishka’ furono lanciati dagli aerei sopra Odessa occupata insieme all’invito: ‘Aiutate l’Armata Rossa a liberare la nostra terra natale’. Penso che la storia non conosca un secondo esempio simile. Le semplici parole di Vladimir Dykhovichny si sono rivelate cento volte più forti di qualsiasi appello propagandistico e politico”.
Un’altra canzone di Utësov, “Sul Mar Nero”, è ancora un inno cittadino. La musica di Modest Tabachnikov, il testo del poeta Semyon Kirsanov – vero nome: Samuil Kortchik – nato a Odessa nel 1906. Majakovskji lo incontrò qua, ne fu emozionato, e lo pubblicò, e Kirsanov poi se ne volle erede. Ha, come devono le canzoni per restare, parole semplici, dice: “C’è una città che vedo nei miei sogni… C’è il mare in cui ho nuotato e sono annegato / e per fortuna sono stato tirato a riva. / C’è l’aria che ho respirato da bambino, / e non ne avevo mai abbastanza / sul Mar Nero. / Non dimenticherò mai il viale e il faro, / le luci dei piroscafi, / la panchina dove noi, mia cara, / ci siamo guardati per la prima volta! / Negli occhi ci siamo guardati per la prima volta / in riva al Mar Nero”.
Mi chiedo se anche su Utësov e sulla sua mezza panchina incombano destituzioni, ma sarebbe troppo impopolare, pare che anche il governatore militare dell’oblast’, Oleh Kiper, vada pazzo per lui. Su Il’f sembrano essersi addensate delle nubi – strane.
Di Reva scultore scrissi all’inizio della guerra. Il giardino ospita altre sue opere, compreso un gruppo vivacissimo, una danza delle ore, coppie umane, cagnolini di bronzo guatati da gatti veri, nel padiglione intitolato all’Ora di Odessa. La sua base incide i saluti alla città dei suoi grandi. Ci sono le prime righe degli appunti di Isaak Babel’, “I miei volantini”: “Odessa è una città pessima. Lo sanno tutti. Invece di ‘una grande differenza’ dicono ‘due grandi differenze’ e anche ‘qua e là’. Pensate: una città in cui è facile vivere, una città in cui è chiaro vivere. E’ composta per metà da ebrei, e gli ebrei sono un popolo che ha imparato a memoria certe cose molto semplici. Primo: si sposano per non essere soli. Secondo: amano così da vivere per secoli. Terzo: risparmiano per avere una casa e regalano alle mogli giacche di astrakan. Quarto: amate i vostri figli, perché è molto bello e necessario amare i propri figli”.
Anche la grande statua di Babel’, di fronte alla casa di famiglia, è di Makarev, il cielo la preservi. Invece qui, proprio di fronte alla panchina di Utësov, dalla quale ora mi sono alzato, Makarev ha scolpito la figura in grandezza naturale di Utochkin. E’ atleticamente aggrappato alla scala sulla facciata dell’antico cinema che si chiama affabilmente da lui, Kinoutokino, tiene in mano, come un ragazzo che faccia volare il suo aeroplano di carta, l’aereo che gli varrà la gloria e gli costerà la vita. Sergej Isaevi Utochkin (Odessa 1876- San Pietroburgo 1916) diventò balbuziente da bambino per un terribile incendio domestico. Fu un campione sportivo leggendario in qualunque specialità, l’idolo dei ragazzini di Odessa. Il promotore delle gare a scendere e risalire in bicicletta (lui anche in auto), senza smontare, l’intera scalinata Potëmkin. Il corridore che per scommessa inseguiva e superava di corsa il tram, da Kulikovo a Bolshoy Fontan – diciotto fermate e 23 chilometri. Infine l’aviere intrepido, abbattuto mentre
soccorreva i suoi. Scrisse di lui Alexander Kuprin: “L’ho incontrato, al Bolshoi Fontan, nell’estate del 1904, e da allora non sono mai riuscito a immaginare Utochkin senza Odessa e Odessa senza Utochkin. E in effetti, il defunto Sergej Isaevi era noto a tutti in questa città, giovani e meno giovani, tanto quanto la statua in bronzo del duca Richelieu sul viale Nikolaevskij. Lui stesso, balbettando e facendo smorfie nervose, come al solito, diceva con tono del tutto serio: ‘Sono terribilmente p-p-popolare a Odessa’, e, dopo una pausa, aggiungeva: ‘Q-quando guido, tutti i ragazzi gridano: ‘Ut-tokin, il cane rosso!’’. Quei ragazzi lo adoravano per la sua spensierata allegria, la sua generosità, la sua audacia”. Uno di quei ragazzini era stato il dirimpettaio di ora, Ledja Osipovi Utësov. E Kuprin racconta la storia “della larga cicatrice, che si snodava per un quarto di arshin sotto la sua scapola destra… Durante uno dei pogrom di Odessa, Utochkin vide per strada un’anziana donna ebrea inseguita da un gruppo di furiosi mascalzoni ubriachi. Immediatamente, obbedendo al primo comando dell’istinto, si lanciò tra la donna e il branco, con le braccia tese. ‘Sento gridare da dietro… ‘Non colpirlo! Questo è il nostro… Utochkin!’ Ma era troppo tardi. Improvvisamente sento una s-s-scossa alla schiena. E ho pperso la m-memoria’. Qualcuno gli conficcò un coltello da cucina nella schiena, passandogli tra le costole”. Anche Ivan Bunin – il primo Nobel russo per la Letteratura, nel 1933 – ne scrisse, commosso: “Utochkin, il famoso atleta, ha visto sul viale Nikolaevskij dei manigoldi picchiare una vecchia ebrea e si è precipitato a strappargliela dalle mani…’. All’improvviso è stato come se una brezza mi avesse soffiato nello stomaco’. Questa è la sua espressione. Lo hanno pugnalato ‘proprio sotto il cuore’”.
Appena più in là del giardino, l’incrocio tra via Preobrazhenskaya e piazza della Cattedrale ospita la statua di Vera Kholodnaya, la “regina dello schermo”, morta improvvisamente, a 25 anni, sepolta nella Cattedrale della Trasfigurazione: “E questo incrocio rumoroso può far pensare al suono di un applauso” (E. Golubovskij). Vera Kholodnaya si era esibita a volte sul palco di Odessa, con Leonid Utësov. E’ ancora opera di Tokarev. Anche lui l’ho incontrato, un uomo alto e dritto, ora ha 79 anni, un viso ieratico e affabile insieme. Del resto il suo maturo Utësov della panchina e la sua giovane Kholodnaya dal gran cappello, fanciullescamente fatale, hanno un tocco di benigna levità. Qualcuno aveva osservato che a Odessa non ci fossero statue equestri. Poi Makarev ha costruito una grande statua del cosacco, ma è a piedi. Sceso da cavallo.
“Nel’44 i volantini col testo di ‘Odessit Mishka’lanciati su Odessa occupata: ‘Aiutate l’Armata Rossa’, dicevano” Utochkin, l’eroico atleta che morì pugnalato mentre salvava la vita a un’anziana durante uno dei pogrom di Odessa