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Stefano Bucci
«Se non fosse stato per questa intervista, non mi sarei nemmeno ricordata dell’anniversario». Dieci anni fa, era il 9 maggio 2015, s’inaugurava la nuova sede della Fondazione Prada a Milano, in un’ex distilleria sul retro dello scalo ferroviario di Porta Romana. Miuccia Prada, presidente e direttrice della Fondazione creata nel 1993 insieme con Patrizio Bertelli, sembra quasi sorpresa di festeggiare una realtà che ha trasformato — risanato —, grazie al progetto firmato da Rem Koolhaas, un’intera area della città («Le fondazioni hanno anche il compito di aprire nuove strade»), e finora inanellato 37 mostre temporanee nella sede milanese, 7 progetti permanenti, 17 progetti digitali, 4 progetti coreografici, 11 progetti musicali, 52 progetti cinematografici, 2 convegni scientifici, 8 convegni multidisciplinari. A cui si aggiungono le 12 mostre nell’Osservatorio in Galleria Vittorio Emanuele, le 13 nella sede di Venezia , le 13 al Prada Rong Zhai di Shanghai, le 8 al Prada Aoyama di Tokyo.
Appena inserita da «Time» nell’elenco delle 100 personalità più influenti del mondo, unica italiana (Baz Luhrmann, il regista di Moulin Rouge e di Australia, la definisce nella nota che accompagna la classifica «intellettualmente robusta, instancabilmente interessata alla vita, all’incontro con nuove persone, all’impegno in un’idea diversa di cultura») Miuccia Prada, co-direttrice creativa di Prada e direttrice creativa di Miu Miu, racconta a «la Lettura» il percorso della Fondazione e la sua passione per l’arte. Una passione confermata, nello spazio rarefatto ed elegante del suo ufficio milanese, dall’imboccatura dello scivolo-installazione in metallo e plexiglas realizzato tra il 1999 e il 2000 da Carsten Höller. Qui collega lo studio al cortile interno, ma pare che nessuno finora l’abbia usato.
Che bilancio si sente di fare di questi dieci anni?
«Quando abbiamo creato la Fondazione, nel 1993, non era un progetto previsto. Inizialmente ci dedicavamo a mostre nelle nostre aree industriali (dove sono stati ospitati, tra gli altri, Anish Kapoor, lo stesso Carsten Höller, Marc Quinn, Giulio Paolini… ndr), cercando di assecondare i sogni e i progetti degli artisti, poiché le gallerie “tradizionali” non erano disponibili a sperimentare e ben pochi finanziavano il loro lavoro. Con il passare del tempo ci siamo resi conto che quel programma e quegli spazi industriali ci stavano stretti. Ho iniziato a pensare di aprire sedi in luoghi diversi, lontano da Milano, magari a Mosca o in Cina. Se avessi voluto fare qualcosa di più serio, mi ha detto mio marito, allora sarebbe forse stato meglio avere uno spazio tutto nostro. L’abbiamo individuato e abbiamo iniziato a confrontarci con Rem Koolhaas. Si è discusso se conservare la vecchia struttura o ideare una nuova architettura, se abbattere tutto oppure mantenere una parte degli antichi edifici; infine abbiamo deciso di mescolare vecchio e nuovo. La sfida a quel punto era decidere con quale mostra iniziare: abbiamo scelto di escludere singoli artisti e di focalizzarci su una mostra di arte antica. L’abbiamo affidata a Salvatore Settis, una scelta che ha funzionato dal momento che Settis sta per curare la sua terza mostra per la Fondazione».
Una scelta in qualche modo rivoluzionaria, cominciare con una grande retrospettiva sul «classico»…
«Alcuni dicono che mi piace essere un bastian contrario, ma in realtà non lo sono, piuttosto cerco e inseguo nuove possibilità, vorrei sperimentare, conoscere realtà inedite. Ogni mio progetto, anche nel campo della moda, nasce sempre dall’idea di non seguire il sentiero ovvio, ma di imboccare strade originali».
L’inaugurazione della sede della Fondazione ha segnato un cambiamento di rotta rispetto al progetto originario del 1993?
«No. D’altra parte non rifletto molto su ciò che faccio, non inseguo secondi fini, preferisco seguire sempre le mie inclinazioni, le mie passioni, le sensazioni. Ma cerco comunque di realizzare progetti che possano essere interessanti e utili per la maggior parte delle persone. Per fortuna rimango sempre consapevole anche dei miei limiti. Vorrei fare di più, anche in ambito artistico, ma non voglio risultare fuori posto».
La Fondazione nasce dalla convinzione che arte e studio siano essenziali per comprendere i cambiamenti del mondo attraverso prospettive nuove e coinvolgenti. Un progetto che scaturisce dalle sue origini culturali e dalla sua formazione…
«La mia formazione non avviene nel campo della moda; mi sono trovata a lavorare in quel settore negli anni Settanta durante la stagione della mia militanza femminista. Ma la moda non è stata la mia prima scelta».
In effetti lei si è laureata in Scienze politiche alla Statale di Milano con una tesi sul…
«Sul Pci, il Partito comunista italiano, e la scuola. Quando ho iniziato a lavorare nel campo della moda, ho deciso però di continuare a seguire i miei interessi, senza isolarmi, ma anzi osservando se possibile con ancora maggiore attenzione la società e quello che mi succedeva intorno. La mia formazione viene anche dalla letteratura. Così ho iniziato a leggere i classici, da Lev Tolstoj a Robert Musil, che non avevo avuto occasione di affrontare e di studiare durante i miei anni di università. Era un modo per portare con me, anche nel lavoro, quello che amavo».
Come l’arte…
«L’interesse per l’arte è arrivato più tardi, quando, insieme con mio marito Patrizio, siamo diventati amici di Eliseo Mattiacci. Grazie a lui (a Mattiacci la Fondazione ha dedicato una retrospettiva nel 1993 negli spazi di via Maffei, ndr) abbiamo capito che i nostri spazi industriali avrebbero potuto essere perfetti per ospitare mostre. E mio marito ha deciso di aprire una fondazione per l’arte. Ma la nostra formazione non era propriamente artistica, perciò abbiamo iniziato a studiare, a leggere, a informarci. E, soprattutto, con il tempo è diventata per noi essenziale la condivisione diretta delle idee con artisti come Carsten Höller e Thomas Demand. Perché, a quel punto, non era più una questione soltanto di studiare, ma di capire e di condividere il presente. Quando pensiamo al futuro, sia io che mio marito vogliamo creare cose sempre nuove, sempre importanti, sempre interessanti per tutti. Non mi considero ambiziosa; ma per quello che riguarda l’arte, posso dire di esserlo».
Pochi giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato di democrazia «a basso voltaggio». C’è secondo lei anche il pericolo di un’arte «a basso voltaggio», più attenta al mercato che all’ispirazione?
«Sì, non è un buon momento per l’arte. Molti giovani artisti si avvicinano troppo al mercato, alle gallerie. Non è una cosa pericolosa, di per sé, soprattutto per gli artisti “maturi”, perché in fondo hanno già definito il proprio profilo. Ma questa vicinanza al mercato può bruciare i più giovani, che dovrebbero essere incoraggiati a portare il futuro nelle loro opere, a proporci nuove verità».
L’arte deve dunque essere anche partecipazione?
«Questo è un argomento che stiamo discutendo all’interno della Fondazione. Crediamo sia fondamentale restare indipendenti, poter fare le proprie scelte, essere liberi di proporre mostre o progetti, specialmente in un momento in cui i musei si trovano di fronte a sempre maggiori difficoltà, a una generale diminuzione del numero dei visitatori. In questo clima l’indipendenza economica diventa cruciale per chi voglia fare arte in modo libero».
Dall’arte classica a quella moderna e contemporanea, con la Fondazione avete da tempo scelto di ampliare il vostro raggio d’azione verso le neuroscienze e l’Intelligenza artificiale. È da qui che comincia il futuro dell’arte?
«Sicuramente. Partiamo dalla constatazione che dobbiamo pensare a mostre e istituzioni che siano significative nella vita quotidiana delle persone, che possano incidere nella realtà di ciascuno di noi. Erano anni che riflettevamo sull’importanza di fare una mostra sulla scienza. Ma c’è un problema: presentare idee è complicato; ci sono curatori dell’arte, ma non ci sono curatori del pensiero. Quando abbiamo organizzato la prima mostra sulle neuroscienze, inserita nel progetto triennale Human Brains, abbiamo suscitato grandi entusiasmi tra gli scienziati che partecipavano ma abbiamo dovuto affrontare notevoli difficoltà nella realizzazione pratica della mostra, perché il pensiero teorico non sempre si traduce in una rappresentazione efficace, perché la scienza — come la religione — ha bisogno di un approfondimento serio che non sempre coincide con le dinamiche di una mostra».
Come pensate allora di proseguire questo impegno nel campo delle neuroscienze?
«Non abbiamo una soluzione, ne stiamo discutendo. Non è facile: non siamo un’università, siamo “solo” un’istituzione nata per le arti visive. Quello che sappiamo è che c’è una grande esigenza di avvicinarsi e di capire cosa significhi realmente scienza. La scienza è qualcosa che riguarda tutti noi, della cui necessità ognuno è consapevole. Il problema è, appunto, come proseguire su questa strada in modo efficace».
Il dialogo tra arte e Intelligenza artificiale è sembrato invece subito più comprensibile, più accessibile…
«Parlare di Intelligenza artificiale attraverso una mostra è altrettanto complesso. Qualche anno fa abbiamo affrontato questo tema con una mostra all’Osservatorio, Calculating Empires, che rifletteva sui legami storici tra tecnologia e potere per comprendere il panorama attuale dell’Intelligenza artificiale. Un altro tentativo è la mostra Satellites in corso a Prada Aoyama a Tokyo (con Prada Rong Zhai a Shanghai, una delle due sedi esterne della Fondazione, ndr). Grazie a moderni sistemi di Intelligenza artificiale il regista danese Nicolas Winding Refn ha creato una conversazione a distanza, ma molto personale, con il game creator giapponese Hideo Kojima. Bisogna considerare che l’IA è un nuovo modo di pensare già presente tra noi. E che può rappresentare un’opportunità per avvicinarci ai giovani, un obiettivo primario della Fondazione».
A proposito di giovani…
«Si parla spesso di loro e della loro educazione, facendo sempre però molto poco. La Fondazione sta affrontando adesso questo: come dare un contributo cercando di organizzare corsi e di coinvolgerli nei processi decisionali. Finora abbiamo sempre parlato soltanto noi, la vecchia generazione di curatori, mentre ai giovani non è mai stata data voce».
Come nasce un progetto di mostra?
«Spesso procediamo per conoscenze e opportunità. Anche il caso, nella vita, gioca un ruolo importante: le esperienze e gli incontri possono generare nuove attività, nuove visioni. Le mostre seguono il corso della vita reale. Io credo nel lavoro serio, nel pensiero, nella dedizione».
Che tipo di mostre si possono realizzare oggi?
«Possiamo scegliere di realizzare mostre estremamente pesanti o estremamente serie. Pesanti nel senso che trattano argomenti difficili, come le neuroscienze, o serie perché in contrasto con la superficialità dilagante, come Typologien o come Nada dove Thierry de Cordier ha cancellato l’immagine della crocifissione per sperimentare la grandezza del nulla. La prossima mostra curata da Salvatore Settis seguirà ancora questa linea: dimostrerà che l’arte antica era molto più aperta e che nei tempi passati gli scambi tra culture avvenivano proprio attraverso l’arte. Gli antichi erano più democratici e aperti di quanto ci possiamo illudere di essere noi».
Quanto sono importanti i curatori?
«Sono fondamentali perché devono mettere in pratica le idee, anche quelle più difficili. La sfida è uscire da un’ottica autoreferenziale e aprirsi a prospettive innovative, connesse con la modernità».
Qual è il suo primo ricordo legato all’arte?
«Uno dei ricordi più profondi è stato il sentimento di stupore provato di fronte a due opere di Walter De Maria (protagonista nel 1999 di una mostra in un altro dei vecchi spazi industriali della Fondazione, quello di via Spartaco, ndr): Silver Portrait of Dorian Gray del 1965 e The Lighting Field del 1977, due opere che per me — cresciuta negli anni Sessanta con l’idea di cambiare il mondo — rappresentano ancora perfettamente il confronto tra l’uomo e i suoi ideali».
Se dovesse riassumere il lavoro della Fondazione in questi dieci anni, quali mostre sceglierebbe?
«Non è facile, ma forse sceglierei Le Studio d’Orphée di Godard, non una mostra in senso classico, ma la messa in scena, al primo piano della Galleria Sud, di un atelier, di uno studio di registrazione e di montaggio, del luogo di vita e di lavoro di Godard. Sono legata a questa mostra perché è scaturita dalla mia passione per il cinema: da un nostro incontro è nata l’idea di trasferire in quello spazio il materiale tecnico utilizzato nella realizzazione dei suoi ultimi film a partire dal 2010, così come i mobili, i libri, i quadri e gli altri oggetti personali provenienti dal suo studio-abitazione di Rolle in Svizzera, con un titolo che cita espressamente il mito di Orfeo ed Euridice e stabilisce un parallelo tra il regista e il poeta-musicista greco. E poi sono molto legata all’installazione che Robert Gober ha realizzato nel 2014 all’interno della Haunted House, nella Torre dorata della Fondazione. E anche al progetto delle Cere anatomiche, quando nel 2023 abbiamo portato nel Podium tredici ceroplastiche del XVIII secolo provenienti dal museo della Specola di Firenze, ma abbiamo affidato la regia della mostra a David Cronenberg, il regista-cult di The Fly: forse non è stato un grande successo di pubblico, ma è stata una mostra formidabile».
Da Milano a Venezia: nel 2024 Christoph Büchel ha trasformato la sede della Fondazione, a Ca’ Corner della Regina, in una copia del banco dei pegni in fallimento basata sull’aspetto originale del Monte di Pietà di Venezia: anche quella un’installazione molto potente…
«Una bellissima mostra, una mostra piena di riferimenti spaziali, economici e culturali, un’indagine del concetto di debito come radice della società umana e veicolo primario con cui è esercitato il potere politico e culturale. La rifarei domani. Certo non è stata una mostra facile, soprattutto perché Büchel ogni giorno minacciava di non volerla più fare, ma poi alla fine ho vinto io e ne sono felice, anche se fino alle tre della notte prima dell’inaugurazione non siamo stati sicuri di aprirla».
La Fondazione è però anche musica…
«Da bambina andavo alla Scala, quello è stato il mio primo incontro con la musica. Quando, molti anni dopo, ho incontrato Riccardo Muti, abbiamo pensato che la Fondazione sarebbe stata il luogo ideale per ospitare la Riccardo Muti Italian Opera Academy, un corso di formazione per giovani direttori d’orchestra e maestri collaboratori, che quest’anno si concentrerà sul Don Giovanni di Mozart e che si concluderà il 30 novembre con un concerto diretto dallo stesso Muti».
E naturalmente cinema…
«All’inizio, quando abbiamo aperto il Cinema, c’erano quattro o cinque spettatori al massimo, ma la mia perseveranza e la mia passione alla fine sono stati premiati. Oggi la sala è sempre piena, anche grazie a un calendario ricco di proiezioni, anteprime, dialoghi con i registi e con gli autori. Proprio i dialoghi sono una delle ragioni di questo successo. Cerchiamo di diventare un cinema della città, l’obiettivo che ci eravamo dati con il curatore».
Quanto è difficile oggi fare arte?
«Sicuramente era più facile negli anni Novanta, quando la comprensione del mondo era semplice: l’Occidente e le sue dinamiche e la lettura della realtà apparivano molto chiare. Il mondo sembrava “piccolo”, nel senso che vivevamo chiusi nella nostra realtà e potevamo credere di conoscere tutto, di poter sapere tutto. Adesso non è più possibile. Ogni giorno il mondo intero si presenta davanti a noi nella sua complessità, una complessità che è impossibile capire, nonostante tutti i giornali che possiamo leggere. Magari sarà possibile un giorno, grazie a una pillola che ci impianteranno nel corpo. Davanti a questa complessità siamo impreparati e preferiamo rinchiuderci nel nostro piccolo mondo perché il resto ci sembra troppo grande. Purtroppo questa chiusura la ritrovo anche nei giovani, nonostante emergano voci interessanti, soprattutto tra le donne, soprattutto dal Nord Africa, dal Medio Oriente, dalla Corea».
Quale futuro per la Fondazione?
«La Fondazione vuole continuare a essere un osservatorio sulle trasformazioni della realtà, un’istituzione che aiuti a pensare in modo più profondo coinvolgendo artisti, intellettuali e studiosi provenienti da vari contesti. Fin dall’inizio ci siamo chiesti come la cultura e l’arte possano incidere sulla vita quotidiana delle persone. Lo sforzo è cercare risposte sempre più attuali e urgenti a questa domanda. Siamo convinti infatti che lo studio e l’approfondimento possono essere qualcosa di piacevole e coinvolgente e che lo scopo di un’istituzione culturale come la nostra deve essere continuamente ridiscusso e aggiornato».
Per concludere: cos’è l’arte per Miuccia Prada?
«Onestamente non lo so. Potrei dire che è pura idea, puro pensiero, pura libertà. Ma forse l’arte deve solo seguire il flusso della vita».
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