Un dialogo tra cinema e letteratura, sul ruolo dei «maestri», sui desideri controversi. Protagonisti del primo panel del secondo giorno dell’evento di Domani dedicato alla cultura, al teatro Franco Parenti di Milano, il regista e produttore Luca Guadagnino (autore tra le altre cose di Se mi lasci di cancello e del suo ultimo film Queer), Giovanni Tortorici (al cinema con il film autobiografico Diciannove) e con lo scrittore Jonathan Bazzi. Con la moderazione di Giulia Cazzaniga.
Una pellicola, Diciannove, che racconta una generazione che vive affogata nel disagio. «Il mio presupposto era partire dalla mia esperienza personale. Non penso di avere la competenza di parlare a nome di una generazione, poi portandolo un po’ in giro qualcuno ha detto che era generazionale. Ho solo cercato di descrivere in maniera autentica il mio vissuto. Ho cercato di essere molto maniacale sulla mia esperienza. Per esempio, abbiamo girato nell’appartamento in cui vivevo quando avevo 19 anni a Siena. Ho cercato al massimo di ricalcare la mia esperienza, questo era l’obiettivo del lavoro».
«Peggio di fare gli attori è fare il regista»
Tutto è partito due anni fa, quando Tortorici lavorava con Luca Guadagnino. «Gli avevo già fatto leggere qualcosa, su Diciannove è rimasto entusiasta», ha detto Tortorici. Regista, ma anche sceneggiatore: «Per me è molto complicato perché peggio di fare l’attore c’è il voler fare il regista. Nulla mi appassiona come quando sento che qualcuno vuole fare il regista. Nel fare il regista bisogna conoscere profondamente sé stessi. Partendo da questa forma di scetticismo, quando trovo qualcuno che ha una precisione tremenda nel sapere cosa vuole fare, cosa vuole dire, è un’epifania a cui non penso di voler rinunciare. Quando ho letto il copione di Diciannove, ho visto che ciò che lui era molto bravo a fare – cioè catturare con la lingua dialoghi magnifici – si era armonizzato in una storia che aveva una sua forza a prescindere dalle convenzioni della narrazione cinematografica. Il film era qualcosa di unico e imperdibile. Quindi per me è diventata una missione di vita essere in grado di fare ciò che il produttore fa: securizzare i fondi per permettere al regista il film che vuole fare». Però, aggiunge Guadagnino, «l’operazione è durata poco. Si è riusciti a collare insieme i fondi in poco tempo, perché l’acqua trova sempre la sua via. Se c’è».
Maestro sì, anche se Guadagnino ne rifiuta l’etichetta: «Mi fa venire in mente certi tipi di personalità che ti chiamano “maestro” per prenderti per il culo». «Mi piacciono le persone, sono curioso degli altri. Mi interessa sapere come le persone si esprimono e amo le debolezze degli altri. Gli attori sono figure molto deboli, perché sono insicuri, sempre metafora, perché se sono bravi devono essere per forza essere attraversati dal cambiamento costante. Si affidano perché loro possono essere in controllo di quel che fanno ma non di tutto il film. Affidarsi alla complessità di un film è comunque una cosa interessante, vuol dire lasciarsi andare».
Neanche a Jonathan Bazzi piace fare il maestro tout court. «In passato mi sono trovato perché dovevo farlo per mantenermi a Milano. Ho insegnato yoga per diversi anni, e mi sono forzato a farlo. Faccio molta fatica ad assumere una posizione gerarchica. Oggi, invece, mi capita più spesso ma legato alla scrittura. Faccio sempre un po’ fatica perché inevitabilmente si porta indietro una gerarchia. Quello che a me piace, anche del lavoro creativo, è poter smentirsi e cambiare idea».
Fare il regista da esordiente
Ma cosa vuol dire dover dirigere degli attori essendo un esordiente? La domanda la fa direttamente Bazzi a Tortorici: «A un certo punto ero entrato un po’ in crisi perché mi ritrovavo all’improvviso in una posizione gerarchica rispetto alla troupe. Effettivamente, ci si trova in una posizione di potere molto grande. Nella pratica, penso di averla gestita con tranquillità e di non essermi lasciato andare». Interviene Guadagnino con un aneddoto: «Quando lui girava Diciannove io giravo Queer. Di solito non vado mai sui set dei film che produco. Però in quel caso sono passato in un sabato in una piazzetta di Siena, e vedo prima la testa di Giovanni, e poi si forma questo gruppo intorno a lui e tutti che pendevano dalle sue labbra. Pazzi di lui. Quindi o ce l’hai o non ce l’hai».

Gerarchia e potere sull’altro
L’idea della gerarchia e del potere sull’altro, filo rosso di questo panel, è molto presente in Queer. Siamo negli anni Cinquanta, in Messico, Daniel Craig interpreta quest’uomo maturo – William Lee – che vive in una situazione di solitudine, si innamora di un giovane che viene definito «un pesce freddo», un ex marine bello e indifferente. Questa pellicola è tratta da un libro che ha colpito Guadagnino quando aveva solo 16 anni. Uno schock estetico, una folgorazione? «Il libro era il primo di Burroughs che abbia letto. Quando leggi Burroughs per la prima volta è come essere a un concerto pazzesco per la prima volta. Un’esperienza fisica, perché il modo in cui compone i suoi libri fanno corpo a corpo con l’immaginario di chi lo legge. Per me quello fu il punto, non era la storia di un giovane omosessuale palermitano che trova il tema che lo contraddistingue in un libro. Quanto il mondo in cui Burroughs compone il suo libro. Dopo aver letto Queer compro tutti i libi di Burroughs in questa libreria, la Sellerio di piazza Croci a Palermo, che aveva tutti i suoi libri. Quello è stato il mio interesse per il libro. Poi, è più il film che parla di un uomo che si innamora di un altro giovane uomo. Chi guarda per primo è Allerton che guarda Lee per primo, è lui che chiede a Lee di unirsi alla compagnia di bevute. È un azione del giovane verso il maturo che scatena nell’uomo Lee quella foglia di desiderio di fusione che poi viene fatto nel terzo atto».
La solitudine di un diciannovenne
Se in Queer c’è un desiderio di fusione, Tortorici rifugge la connessione con gli altri. «Penso che la solitudine di quel tempo, quando avevo 19 anni, fosse dettata un po’ da ansia sociale, anche un po’ di timore rispetto alle pulsioni che può avere a quell’età. Il comportamento del personaggio era dettato da una forte repressione, anche l’isolamento è una conseguenza di questa enorme repressione. Nel film, tutto quello che vive Leonardo – questo studio maniacale della letteratura – siano tutte sublimazioni degli istinti sessuali repressi. Mi sento un po’ freudiano, penso che tutto sia dettato dalle pulsioni e dalle deviazioni di queste pulsioni. Quindi sì, penso che la solitudine fosse una conseguenza di questa cosa qui. Mi ha aiutato ad archiviare un anno della mia vita abbastanza bizzarro».
Desideri controversi e ambigui
Entrambi i film parlano di desideri controversi, ambigui, non illuminati; un tema che interessa anche Bazzi, trattato in Corpi minori. Quando si sceglie di raccontare la faccia oscura del desiderio, non si corre un rischio? «È pericoloso, sì. Mi interessa molto l’atmosfera culturale in cui siamo che non sembra tanto interessata a questo tipo di direzione, che segue la verità della rappresentazione. Siamo in un’epoca in cui anche delle comprensibili e necessarie idee di aggiustamento hanno creato un appiattimento. Quest’impianto nevrotico in cui noi siamo tutti i giorni è lo stesso che ci aspettiamo di ritrovare quando guardiamo un film o un libro oggi. Con la volontà di voler essere confermati nelle piccole convinzioni che già si hanno. C’è un po’ il terrore di sconfinare e di accorgersi che questi recinti identitarie sono in realtà pieni di passaggi sotterranei».
Una narrazione diversa
È necessaria una narrazione diversa, senza aver paura di raccontare ciò che è oscuro? «Il cinema, negli ultimi 40 anni, ha vissuto una torsione molto autoritaria per il modo in cui ha imposto le forme della narrazione, i soggetti e in generale la risposta che un’esperienza di cinema deve avere nello spettatore. E ha omogeneizzato il proprio linguaggio. Quando il tipico volontarismo un po’ ipocrita di Hollywood vengono celebrati come forme di linguaggi diversi che celebrano film che vengono da altre parti del mondo, e poi in realtà tu guardi questi film e ti accorgi che rispondono della stessa estetica del luogo che li celebra, Hollywood, con una sorta di mutuazione dei codici di linguaggio di quella lectio hollywoodiana in chiave local. Che è la stessa esperienza delle città: ci sono locali che sono o tutti franchise o gruppi di persone che vogliono fare quel che i franchising stanno facendo. Ma le identità non sono tutte uguali, non lo sono nemmeno nella ricerca di differenza che la teoria delle identità sta cercando di far passare come tale. Perché noi siamo soggetti complessi con mille contraddizioni, che hanno mille possibilità, che possono cambiare nel tempo in maniera imprevedibile. Invece la cultura dell’omogeneizzazione è una cultura fatta di volute. E quindi è molto complicato districarsi. Cos’è un bel film? Dov’è l’inganno? Il punto è quanto uno fa qualcosa che corrisponde in maniera profonda a ciò che vuole fare senza applicare sé stesso in maniera passiva al codice che ti viene imposto. È complicatissimo ma non è vero che è tutto perduto. Mi piacerebbe fare nomi ma non lo farò. Per esempio, Diciannove è un film perfetto in questo senso che ha un Dna italiano straordinario: l’idea di questo ragazzo, il suo errare per le possibilità di educazione che vuole dare a sé stesso, il confronto/conflitto con le figure della famiglia ma anche con la letteratura con cui si confronta, il contemporaneo, le discoteche, le musiche. Ma è anche un film completamente personale che però parla al mondo. Negli Stati Uniti esce il 25 luglio, sono pochi i film che hanno quel destino».
I «no» per il film di Tortorici
Guadagnino ha ricordato in apertura come sia stato abbastanza facile montare il film di Tortorici, ma «abbiamo avuto dei rifiuti netti forme istituzionali di finanziamento del cinema in Italia che avrebbero dovuto dire di sì. Perché se non lo fanno loro, chi lo deve fare? Chi deve spingere sennò l’avanzamento della cinematografia in Italia? Quei “no” sono poi sono diventati per noi idei “sì”».
Arte e politica: la censura di Istanbul
Quanto fare arte vuol dire anche far politica? Guadagnino racconta un episodio di censura. «Dovevamo andare al festival di Mubi e loro volevano farlo a Istanbul. E il governo o la commissione di censura locale hanno detto che Queer era bandito perché provocava disordini morali. Ma non ho ancora capito se l’hanno visto o se non l’hanno visto. Perché se l’hanno visto e hanno sentito il disordine morale dentro di sé allora il film è un trionfo, un capolavoro. Però non mi faccio martire della censura della commissione di Istanbul o di Erdogan. Quando sento dire di boicottare i Paesi perché non sostengono gli omosessuali non sono d’accordo, è bello avere dei nemici ogni tanto».
Il lavoro d’artista è una necessità di militanza? Per Bazzi «oggi è difficile. Su Domani avevo scritto un pezzo sul mio desiderio di magrezza, che ha generato una shitstorm. Però credo sia importante permettersi, se si è interessati, di distinguere le pratiche. Per me, la creatività, l’arte e la scrittura possono intrecciarsi con l’ambito politico. Ma non possono essere sovrapposte».