
Il Punto 16/05/2025
19 Maggio 2025
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19 Maggio 2025Dopo oltre tre anni, Russia e Ucraina tornano a parlarsi a Istanbul (Turchia). Una delegazione del paese invasore – capeggiata dal consigliere presidenziale Vladimir Medinskij – è atterrata giovedi 15 maggio nella città sul Bosforo, in attesa di incontrare i rappresentanti della nazione aggredita guidata dal ministro della Difesa Rustem Umjerov. I responsabili di missione sono stati scelti con cura dai due capi di Stato rivali, che hanno preferito disertare l’incontro. Pur essendo artefice della proposta di un faccia a faccia con il proprio omologo, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha preferito non partecipare al vertice sia per motivi di sicurezza personale sia per non consegnare alla storia l’immagine di un sovrano russo posto allo stesso livello di un leader di un ex Stato vassallo (quasi) sconfitto.
In assenza dello “zar” russo, avrebbe avuto poco senso la partecipazione del presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky. L’ex attore di Kryvyj Rih avrebbe soltanto diffuso in modo plastico il senso di solitudine del popolo ucraino, amplificato dalla vistosa assenza del principale sponsor delle trattative: il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, che ha preferito far ritorno in patria dopo un intenso viaggio in Medio Oriente. Meglio dunque per il presidente del paese aggredito volare a Tirana (Albania) per incassare la solidarietà dei leader della Comunità politica europea (forum di 44 paesi del Vecchio Continente + Commissione e Consiglio Ue), esclusi dai colloqui per la sospensione dei combattimenti ma riuniti nella capitale albanese per concordare una posizione comune sul sanguinoso conflitto armato in corso.
Un 18° pacchetto di sanzioni contro Mosca approntato da Bruxelles potrebbe compromettere le già fragili possibilità di raggiungere una pace stabile. Certamente un cessate-il-fuoco temporaneo di trenta giorni o più non potrebbe essere accettato in alcun modo dalla Russia in assenza di chiare garanzie europee sul non trasferimento di armi in Ucraina. Interrompere le operazioni belliche per permettere al nemico di riorganizzare le difese o approntare contrattacchi non rispecchia alcuna logica, né politica né militare. Per i notabili moscoviti, le iniziative europee dettate spesso da ragioni di politica interna – in particolare quelle della sedicente “coalizione dei volenterosi” (Regno Unito, Francia, Germania, Polonia) – sono nella migliore delle ipotesi evanescenti, nella peggiore nocive per chiunque: aggredito, aggressore, sponsor e mediatori.

Il Cremlino ha scelto di inviare Medinskij al posto dell’influente ministro degli Esteri Sergej Lavrov per una ragione ben precisa: dare un messaggio di continuità con i negoziati di Istanbul interrotti nella primavera del 2022, quando su pressione euroatlantica (in particolare britannica) Kiev si convinse di poter vincere le guerra e respingere l’invasore grazie all’incessante sostegno bellico occidentale. L’assistente personale di Vladimir Putin e già ministro della Cultura era il capo negoziatore russo di allora, quando un cessate-il-fuoco pareva davvero alla portata. Tradotto: cari ucraini, avete dato retta all’Occidente e ora vi ritrovate esattamente al punto di partenza, ma con molti più morti e meno territorio.
L’ufficio di via Bankova ha invece designato Umjerov come capomissione a fianco o al posto del ministro degli Esteri Andriy Sybiha per almeno due motivi. Primo, ricordare al mondo che l’Ucraina è strenuamente impegnata in una guerra per la propria sopravvivenza. La leadership militare non può dunque essere subordinata al dicastero dedito ai rapporti internazionali in condizioni normali. Secondo, il successore di Oleksij Reznikov è un tataro di Crimea, quindi di origine turanica. La sua presenza a Istanbul è utile per guadagnare i favori del paese ospitante, strizzando l’occhio al capo di Stato Recep Tayyip Erdoğan e al suo governo, che tanto hanno a cuore l’irraggiamento etnico-linguistico della Turchia nel suo vasto spazio geopolitico. Tradotto: cari turchi, una Crimea sotto il ferreo dominio imperiale russo vedrebbe la definitiva recisione dei suoi legami storici con la Sublime Porta.
Prima del vertice effettivo tra le parti belligeranti, la delegazione dell’Ucraina si è confrontata con i mediatori di Turchia e Stati Uniti presso il palazzo di Dolmabahçe sotto gli occhi del ministro degli Esteri anatolico Hakan Fidan e del segretario di Stato americano Marco Rubio. Al termine della riunione, la vera eminenza grigia dell’Ucraina – ovvero il capo dell’ufficio presidenziale ucraino e produttore cinematografico Andrij Jermak – ha auspicato pubblicamente il raggiungimento di una tregua, se necessario anche superando le diffidenze e favorendo il faccia a faccia tra capi di Stato: “L’Ucraina è pronta per la pace e per un cessate-il-fuoco duraturo e incondizionato. Siamo anche pronti per incontri e negoziati ad alto livello”. Un modo per addossare la colpa di eventuali fallimenti diplomatici alla presunta ritrosia russa a condurre trattative genuine. D’altronde, alla vigilia dell’incontro, lo stesso Zelensky aveva bollato come “burattini privi di potere decisionale” gli inviati di Mosca, incassando poi la piccata risposta della portavoce del ministero degli Esteri russo Marija Zakharova: “Pagliaccio!”
In un tale clima di tensione, amplificato dalla cassa di risonanza mediatica, i colloqui non potevano che sfociare in un prevedibile insuccesso. Dopo due intense ore di negoziato diretto russo-ucraino pazientemente mediato dai turchi, i funzionari di Kiev hanno lamentato uno “scollegamento dalla realtà” delle richieste di Mosca: “Vogliono il ritiro delle truppe ucraine da gran parte del territorio. Hanno messo deliberatamente sul tavolo proposte irrealizzabili per abbandonare il tavolo senza alcun risultato”. La vasta demilitarizzazione dell’Ucraina è una bestemmia per le orecchie degli inviati ucraini, seduti al tavolo negoziale vestiti in mimetica.
Infrangere le disposizioni dello stesso Volodymyr Zelensky, che nel settempre 2022 ha espressamente proibito (decreto presidenziale 679/2022) di intrattenere negoziati con la Federazione Russa fintantoché Vladimir Putin ne fosse stato presidente, non ha dunque portato grandi risultati se non quello di assecondare il governo degli Stati Uniti, dal cui ausilio militare dipende l’esistenza stessa dell’Ucraina. Il concordato scambio di mille prigionieri per parte e un generico assenso su un futuro faccia a faccia tra Zelensky e Putin sono comunque passi necessari per non bloccare un processo di pace che si preannuncia lungo e complesso.
Nel frattempo, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha fatto sapere che un incontro tra il presidente russo e l’inquilino della Casa Bianca Donald Trump “è necessario”, ma prima “occorre effettuare una preparazione adeguata” del vertice. La dichiarazione del diplomatico moscovita è una risposta conciliante al desiderio espresso ad Abu Dhabi dal tycoon: “Voglio incontrare Putin appena possibile; penso che sia giunto il momento”. Un tête-à-tête di alto profilo e alla pari tra i due capi di Stato – magari addirittura a Mosca – costituirebbe già di per sé un successo per la Russia, il cui primo obiettivo è la normalizzazione dei rapporti con il grande rivale nucleare. Una guerra per procura può terminare soltanto mediante un accordo tra le potenze che contano.
Il Cremlino ha scelto di inviare Medinskij al posto dell’influente ministro degli Esteri Sergej Lavrov per una ragione ben precisa: dare un messaggio di continuità con i negoziati di Istanbul interrotti nella primavera del 2022, quando su pressione euroatlantica (in particolare britannica) Kiev si convinse di poter vincere le guerra e respingere l’invasore grazie all’incessante sostegno bellico occidentale. L’assistente personale di Vladimir Putin e già ministro della Cultura era il capo negoziatore russo di allora, quando un cessate-il-fuoco pareva davvero alla portata. Tradotto: cari ucraini, avete dato retta all’Occidente e ora vi ritrovate esattamente al punto di partenza, ma con molti più morti e meno territorio.
L’ufficio di via Bankova ha invece designato Umjerov come capomissione a fianco o al posto del ministro degli Esteri Andriy Sybiha per almeno due motivi. Primo, ricordare al mondo che l’Ucraina è strenuamente impegnata in una guerra per la propria sopravvivenza. La leadership militare non può dunque essere subordinata al dicastero dedito ai rapporti internazionali in condizioni normali. Secondo, il successore di Oleksij Reznikov è un tataro di Crimea, quindi di origine turanica. La sua presenza a Istanbul è utile per guadagnare i favori del paese ospitante, strizzando l’occhio al capo di Stato Recep Tayyip Erdoğan e al suo governo, che tanto hanno a cuore l’irraggiamento etnico-linguistico della Turchia nel suo vasto spazio geopolitico. Tradotto: cari turchi, una Crimea sotto il ferreo dominio imperiale russo vedrebbe la definitiva recisione dei suoi legami storici con la Sublime Porta.
Prima del vertice effettivo tra le parti belligeranti, la delegazione dell’Ucraina si è confrontata con i mediatori di Turchia e Stati Uniti presso il palazzo di Dolmabahçe sotto gli occhi del ministro degli Esteri anatolico Hakan Fidan e del segretario di Stato americano Marco Rubio. Al termine della riunione, la vera eminenza grigia dell’Ucraina – ovvero il capo dell’ufficio presidenziale ucraino e produttore cinematografico Andrij Jermak – ha auspicato pubblicamente il raggiungimento di una tregua, se necessario anche superando le diffidenze e favorendo il faccia a faccia tra capi di Stato: “L’Ucraina è pronta per la pace e per un cessate-il-fuoco duraturo e incondizionato. Siamo anche pronti per incontri e negoziati ad alto livello”. Un modo per addossare la colpa di eventuali fallimenti diplomatici alla presunta ritrosia russa a condurre trattative genuine. D’altronde, alla vigilia dell’incontro, lo stesso Zelensky aveva bollato come “burattini privi di potere decisionale” gli inviati di Mosca, incassando poi la piccata risposta della portavoce del ministero degli Esteri russo Marija Zakharova: “Pagliaccio!”
In un tale clima di tensione, amplificato dalla cassa di risonanza mediatica, i colloqui non potevano che sfociare in un prevedibile insuccesso. Dopo due intense ore di negoziato diretto russo-ucraino pazientemente mediato dai turchi, i funzionari di Kiev hanno lamentato uno “scollegamento dalla realtà” delle richieste di Mosca: “Vogliono il ritiro delle truppe ucraine da gran parte del territorio. Hanno messo deliberatamente sul tavolo proposte irrealizzabili per abbandonare il tavolo senza alcun risultato”. La vasta demilitarizzazione dell’Ucraina è una bestemmia per le orecchie degli inviati ucraini, seduti al tavolo negoziale vestiti in mimetica.
Infrangere le disposizioni dello stesso Volodymyr Zelensky, che nel settempre 2022 ha espressamente proibito (decreto presidenziale 679/2022) di intrattenere negoziati con la Federazione Russa fintantoché Vladimir Putin ne fosse stato presidente, non ha dunque portato grandi risultati se non quello di assecondare il governo degli Stati Uniti, dal cui ausilio militare dipende l’esistenza stessa dell’Ucraina. Il concordato scambio di mille prigionieri per parte e un generico assenso su un futuro faccia a faccia tra Zelensky e Putin sono comunque passi necessari per non bloccare un processo di pace che si preannuncia lungo e complesso.
Nel frattempo, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha fatto sapere che un incontro tra il presidente russo e l’inquilino della Casa Bianca Donald Trump “è necessario”, ma prima “occorre effettuare una preparazione adeguata” del vertice. La dichiarazione del diplomatico moscovita è una risposta conciliante al desiderio espresso ad Abu Dhabi dal tycoon: “Voglio incontrare Putin appena possibile; penso che sia giunto il momento”. Un tête-à-tête di alto profilo e alla pari tra i due capi di Stato – magari addirittura a Mosca – costituirebbe già di per sé un successo per la Russia, il cui primo obiettivo è la normalizzazione dei rapporti con il grande rivale nucleare. Una guerra per procura può terminare soltanto mediante un accordo tra le potenze che contano.