Mai così». È un sussurro quello che un magistrato di lungo corso affida a Domani per raccontare come l’antimafia arriva agli anniversari delle stragi.
Quella di Capaci, il 23 maggio 1992, con il tritolo di Cosa Nostra che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre poliziotti, e quella del 19 luglio, in via Mariano D’Amelio, con l’uccisione di Paolo Borsellino e la sua scorta.
Ma non è la crisi dell’antimafia che abbiamo conosciuto e raccontato in questi anni, i soldi sprecati, l’affarismo, le ruberie, ma «il punto più basso di quella giudiziaria», racconta.
La crisi dell’antimafia giudiziaria con indagini che fanno a pugni, ex generali dei carabinieri oracoli giù in Sicilia e presunti carnefici altrove, magistrati che hanno passato la vita a indagare il crimine finiti nel tritacarne, indiziati di reati gravi e «pensionati».
Regolamento di conti
C’è una battuta che ricorre tra i pm che hanno attraversato gli anni delle indagini sulle stragi, assicurato alla giustizia criminali di rango, le belve corleonesi e non solo: «Bisogna arrivare alla pensione senza avvisi di garanzia, sarebbe già un miracolo».
Il riferimento è ai diversi magistrati indagati dalla procura di Caltanissetta e allo scontro che si consuma tra pezzi dello stato. Come se ci fosse in corso un regolamento di conti. Un ex pubblico ministero, oggi parlamentare del M5s, Roberto Scarpinato, è tra i firmatari di una relazione dove c’è scritto: «Mori e De Donno cercano vendetta verso i magistrati che li processarono».
Si tratta di Mario Mori, ex generale del Ros dei carabinieri e ai vertici dei servizi segreti e Giuseppe De Donno, entrambi imputati nel processo Trattativa stato-mafia, e usciti assolti così come in altre indagini nelle quali sono stati coinvolti. Secondo i componenti grillini della commissione antimafia, sono mossi da livore visto che in un’audizione hanno attaccato pm e raccontato la loro “verità” sul famigerato dossier mafia-appalti.
Un documento, ritenuto da alcuni familiari di Borsellino, da esponenti della destra italiana, e dai due ex alti ufficiali, la causa principe della strage di via D’Amelio. Eppure proprio Mori è indagato a Firenze nel fascicolo della procura che cerca i mandati occulti delle bombe sul continente, quelle esplose nel 1993.
Mori ha sempre respinto con fermezza questa nuova contestazione. Indagato in Toscana e oracolo in Sicilia. I pm di Caltanissetta infatti, danno ancora respiro al vecchio dossier mafia-appalti realizzato da Mori e dai suoi uomini.
Nelle scorse ore la procura nissena ha chiesto e ottenuto l’archiviazione della pista nera sulla strage di Capaci, quella pista che sembra sempre più lontana anche nella ricostruzione delle responsabilità dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della regione Sicilia, ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Una pista, quella nera, che continua a battere, invece, la procura fiorentina per le stragi del 1993.
I magistrati indagati
In Sicilia, invece, la procura nissena, al cui vertice siede Salvatore De Luca, in passato sostituto procuratore a Palermo, ha indagato Michele Prestipino, numero due della Dna, per rivelazione di segreto d’ufficio con l’aggravante di aver favorito la mafia.
Fatale il pranzo in un ristorante romano con l’ex capo della polizia di stato, Gianni De Gennaro, oggi presidente del consorzio di imprese Eurolink. I pm nisseni monitoravano proprio De Gennaro che in passato aveva lavorato con Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo, morto nel 2002, che aveva vestito da pentito Vincenzo Scarantino dando il via al depistaggio sulle indagini su via D’Amelio.
L’obiettivo degli approfondimenti era la ricerca dell’agenda rossa di Borsellino, dalla quale il magistrato non si separava e sparita dopo la strage.
Al tavolo c’era anche Francesco Gratteri, super-poliziotto che ha arrestato il boss Leoluca Bagarella prima di essere coinvolto e condannato successivamente per la gestione del G8 di Genova del 2001.
Un pranzo nel quale si è fatto riferimento a «particolari rilevanti» delle indagini in corso sulle infiltrazioni delle mafie negli appalti pubblici, da qui l’iscrizione nel registro degli indagati.
Prestipino in pensione
«Ora la questione è semplice. L’indagine è legittima e ci mancherebbe, ma se è così importante perché bruciarla interrogando Prestipino, in questo modo sia De Gennaro, sia lo stesso numero della Dna hanno saputo delle verifiche in corso», ragiona un magistrato antimafia che conosce i protagonisti della vicenda.
«La discovery ha reso noti gli approfondimenti con un unico effetto, quello di rendere nota la posizione da indagato di Prestipino, finito sui giornali negli stessi istanti dell’interrogatorio», continua. L’altro effetto è quello di aver permesso anche di fare chiarezza all’interno della direzione nazionale antimafia, guidata dal magistrato Giovanni Melillo, che ha ritirato le deleghe a Prestipino di coordinamento investigativo.
Così, pochi giorni dopo, l’ex procuratore capo di Roma ha deciso di andare in pensione, con la certezza assoluta di dimostrare la totale estraneità alle accuse. «Quel vertice della Dna raccontava anche la compresenza di due figure di spicco, due protagonisti di questi anni, Prestipino avrebbe dovuto fare altre scelte dopo la delusione per la mancata nomina a capo della procura della repubblica di Roma», dice un’altra toga.
L’antimafia giudiziaria ha un altro problema da affrontare: la fiducia esterna, quella percepita dalle persone e dalla pubblica opinione.
«C’è un altro particolare che accomuna destini e reazione dei magistrati indagati dalla procura di Caltanissetta. Quando sono stati ascoltati dai pm nisseni nessuno ha risposto e tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. In questi tempi è un chiaro segno di sfiducia dentro il nostro mondo e un messaggio chiaro all’esterno», conclude la nostra fonte. Non c’è solo Prestipino, ma prima di lui anche Gioacchino Natoli, già collega di Borsellino e Falcone, indagato per favoreggiamento, non ha risposto alle domande dei colleghi. Così come in silenzio è rimasto, qualche mese fa, l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, indagato anche lui per favoreggiamento. Silenzio e sfiducia: «Il punto più basso».