
LA DANZA DEI MARANZA
24 Maggio 2025di Pierluigi Piccini
Contro la retorica espositiva, una lettura critica dell’installazione “Path to the Sky”
1. La sospensione come estetica dominante
Retorica espositiva
Path to the Sky di Jacob Hashimoto si presenta come una grande installazione immersiva: una cascata di migliaia di aquiloni sospesi nello spazio architettonico del Santa Maria della Scala. Il visitatore è accolto da un cielo di carta che invita a sollevare lo sguardo, a entrare in uno spazio contemplativo e poetico. Il gesto ascensionale diventa metafora spirituale, omaggio alla leggerezza, al sogno, alla memoria.
Lettura critica
Ma questa sospensione – estetica prima ancora che fisica – è anche una sospensione del conflitto, del pensiero critico, della storia concreta. L’installazione si limita a incantare. È un’arte che preferisce la levitazione alla gravità, la grazia al dissenso. Tutto è armonico, ordinato, elegante. Troppo.
2. Il rapporto con lo spazio
Retorica espositiva
L’opera si inserisce con rispetto nel complesso museale del Santa Maria della Scala, antico ospedale e luogo carico di memoria. Gli aquiloni fluttuano come anime leggere tra le arcate, in un dialogo silenzioso con l’architettura e la sua storia.
Lettura critica
In realtà, Hashimoto non dialoga con lo spazio: lo neutralizza. L’antico ospedale – segnato da transiti umani concreti, da corpi feriti, da gesti di cura – diventa un fondale estetico, svuotato di densità storica. L’arte, qui, si limita a “valorizzare” lo spazio come se fosse una vetrina, non a misurarsi con la sua complessità.
3. Il pubblico implicito
Retorica espositiva
La mostra è pensata per un pubblico ampio e trasversale, capace di apprezzare un’opera visiva accessibile e al tempo stesso colta, che coniuga artigianalità e simbolismo, Oriente e Occidente, tradizione e contemporaneità.
Lettura critica
Il vero destinatario di quest’opera è un segmento preciso: quella borghesia culturale in crisi, ormai riconvertita in ceto medio estetizzante, che cerca nell’arte un rifugio emozionale, un’emozione controllata, mai disturbante. È un pubblico che consuma l’arte come wellness, come bellezza “facile”, che rifugge la complessità del reale in nome della leggerezza.
4. Il linguaggio dell’opera
Retorica espositiva
Hashimoto utilizza materiali semplici e simbolici (carta, bambù, fili) per costruire un lessico visivo che rimanda al volo, alla spiritualità, al tempo sospeso.
Lettura critica
Il suo linguaggio è ormai formula. Gli aquiloni sono diventati pattern, ripetizione stilistica, firma riconoscibile. Ma cosa resta sotto questa superficie? Una poetica gentile, certo, ma senza profondità. L’opera non rischia nulla. Non interroga lo spettatore. Non produce attrito. È una coreografia visiva – rassicurante, contemplativa, seducente – ma priva di tensione reale.
5. Un’estetica della consolazione
Retorica espositiva
Path to the Sky è un ponte tra arte e spiritualità, un gesto che eleva lo sguardo e restituisce al visitatore un’esperienza di bellezza pura.
Lettura critica
Ma è una bellezza che consola, non che inquieta. È l’arte perfetta per un presente che vuole essere anestetizzato. Un cielo elegante, sì. Ma chiuso. Che non porta altrove. E forse nemmeno in alto.
Conclusione: oltre la bellezza, verso il confronto
Esistono pratiche artistiche che, quando entrano in spazi carichi di storia, scelgono di non fluttuare sopra le tracce del passato, ma di affondarvi lo sguardo e la materia. Christian Boltanski, ad esempio, ha trasformato l’assenza e il trauma in installazioni che fanno vibrare il silenzio. Anselm Kiefer ha fatto del piombo, della cenere e della rovina il linguaggio con cui raccontare il peso della memoria. Doris Salcedo, scavando nella frattura collettiva, ha fatto dell’architettura un corpo ferito, aperto, attraversato dal dolore.
In tutti questi casi, l’arte non consola: interroga. Non decora, ma incide. Non offre leggerezza, ma assume il carico del reale. È un’arte che si sporca le mani, che lavora con il vuoto e con la materia, che non ha paura di ferire – o di farsi ferire.
In questo contesto, l’installazione di Hashimoto appare tanto raffinata quanto disinnescata. È una forma di bellezza sospesa che funziona bene quando non è chiamata a sostenere peso simbolico o responsabilità storica. Ma in un luogo come il Santa Maria della Scala, così denso di memorie concrete – di passaggi, sofferenze, presenze umane – l’assenza di conflitto e profondità rischia di suonare come una rimozione.
Avrei desiderato un gesto più radicale, più dialogico, più disturbante.
Più onesto, forse.

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