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In un altro mondo, Ta-Nehisi Coates è un bambino cresciuto in una casa di parole. Suo padre, che aveva come santo patrono Malcolm X e che per restare a galla ha svolto ogni tipo di lavoro — addestrare cani da guardia, trasportare bagagli all’aeroporto, scaricare il sale dalle navi giù alle banchine del porto di Baltimora, con uno stipendio che da una settimana all’altra poteva non arrivare —, suo padre aveva un modo tutto suo per reagire a quel peso esistenziale: prendere un libro. «Papà dice che legge per imparare», scrive Coates ne Il messaggio, in uscita per Einaudi, preziosa testimonianza a metà tra saggio e memoir sul valore della parola, sul potere della scrittura e sul suo ruolo politico.
In un altro mondo, Ta-Nehisi Coates è lo stesso bambino che riceve un nome africano. Ta-Nehisi in antico egizio era la designazione del regno di Nubia, tradotto anche come «Terra dei Neri». «Io sono nato — scrive Coates — nell’ambito di quella che lo storico St. Clair Drake chiama la tradizione rivendicazionista, ovvero da persone Nere che cercavano di riappropriarsi della storia usata come arma contro di loro, e di rivoltarla contro i loro aguzzini». Il suo nome è un cimelio «di un mondo dimenticato». È memoria che cammina, respira.
In un altro mondo, sempre in quell’altro mondo che Coates semina nel libro con orgoglio e con una vena di tenerezza, Ta-Nehisi ha dieci anni e si trova con la madre in vacanza a Berlin, Maryland. Arrivano in macchina fin sull’oceano: questo bambino di dieci anni, il bambino che un giorno diventerà uno dei maggiori scrittori e pensatori americani, prende un canotto gonfiabile blu e giallo e si spinge fra le onde, «allontanandosi dall’America». Quella prima fuga dal Paese dove un tempo vennero ridotti in schiavitù i suoi antenati si ripeterà, decenni dopo. Ta-Nehisi andrà in Senegal per cercare qualcosa su sé stesso e sulla sua gente. Perché lo scrittore è un testimone.
Il messaggio è tante cose insieme. È una lettera accorata ai suoi studenti della Howard University, storico ateneo frequentato in maggioranza da afroamericani; è una meditazione, appunto, sul potere della parola scritta e sulla narrazione; è un resoconto di tre viaggi intrapresi dall’autore: a Dakar, in Senegal, dove visita alcuni luoghi simbolo della tratta schiavista; in South Carolina, dove il suo libro Tra me e il mondo è stato messo al bando; ed è il resoconto di dieci giorni tra Israele e Palestina, nel maggio 2023. Inutile dire che quest’ultimo è il materiale più scottante, perché l’autore tocca alcuni temi a cui è impossibile non applicare il pesantissimo bagaglio della cronaca contemporanea.
Toni Morrison disse di essersi sempre domandata chi avrebbe potuto colmare il vuoto lasciato dal suo caro amico James Baldwin. «Chiaramente è Ta-Nehisi Coates», spiegò Morrison quando la stella di Coates cominciava a brillare nell’Olimpo delle lettere americane. Prima de Il messaggio , Coates ha assestato alcuni colpi formidabili. Ci sono stati, tra gli altri, saggi oggi fondamentali come Tra me e il mondo (Codice, 2015; vincitore del National Book Award), struggente lettera scritta al figlio su cosa significhi essere neri in America, il romanzo Il danzatore dell’acqua (Einaudi, 2019), a cui è particolarmente affezionato, e l’acclamatissimo articolo-saggio The Case for Reparations, apparso sull’«Atlantic» nel 2014 (tradotto in Italia da Codice con il titolo Un conto ancora aperto), che ispirerà proprio Tra me e il mondo, nel quale si focalizzava sulle pratiche discriminatorie nei confronti dei neri americani, tra cui l’assenza di assistenza sociale, la negazione del diritto alla casa e di servizi finanziari di base, garantiti a tanti bianchi. Un male che veniva da lontano, un seme piantato 400 anni prima sulle coste della Virginia, quando sbarcarono i primi schiavi. The Case for Reparations insiste sulla possibilità di destinare risarcimenti ai discendenti degli schiavi nelle forme di posti di lavoro e inserimento sociale.
Coates ha sceneggiato anche alcune avventure dell’eroe africano Pantera Nera, in perenne lotta contro aggressioni colonialiste. Con Il messaggio torna a imporsi sulla scena letteraria dopo alcuni anni di silenzio. Ne parla in questa rara intervista, concessa a «la Lettura».
«Il messaggio» è figlio di tante esperienze da lei vissute. Sembra che la sua carriera di scrittore abbia raggiunto una nuova vetta: il libro è la summa di una serie di viaggi; lei è diventato un testimone non solo dell’America ma del mondo. Ha finalmente raggiunto lo scopo che si era posto, raccontare la verità?
«Questo libro ha radici lontane. Una di questa affonda nel 2014, quando uscì il mio saggio The Case for Reparations, nel quale mi soffermai anche sui risarcimenti pagati al popolo israeliano dopo l’Olocausto, con gli accordi tra il Parlamento dello Stato di Israele e la Germania Ovest. Quello scritto provocò molte critiche. Così decisi di mettermi in viaggio e di visitare finalmente il Medio Oriente: volevo esserci fisicamente, volevo essere un testimone. Volevo riflettere sul rapporto tra scrittura e politica, insistere sul fatto che l’arte non era una distrazione dalla politica. Volevo confutare il fatto che le battaglie culturali non fossero legate, nella concezione comune, a condizioni materiali. Inoltre non ero mai stato in Africa, sentivo la necessità di raccontare quel viaggio verso un mondo originale».
Ha legato la persecuzione degli ebrei durante l’Olocausto alla persecuzione dei neri negli Stati Uniti. Ma anche la sofferenza palestinese e i razionamenti israeliani in Cisgiordania: «Israele si è spinto ancora oltre il Sud delle leggi di Jim Crow, segregando non solo piscine e fontane, ma l’acqua stessa. Mi è venuto da pensare che su questo pianeta c’è ancora — sotto il patrocinio statunitense — un luogo che somiglia al mondo in cui sono nati i miei genitori».
«Sapevo di provare determinati sentimenti, che sono risultati ancora più nitidi una volta arrivato lì, dopo aver visitato lo Yad Vashem prima e gli insediamenti in Cisgiordania poi. Quando provieni da una storia di oppressione, la domanda che devi porti è: qual è la tua responsabilità? Qual è il tuo ruolo nei confronti del mondo? Il fatto che il mondo ti abbia assegnato il ruolo dello sconfitto significa che devi disinteressarti degli altri? Oppure il fatto di essere considerato una vittima deve far sì che tu renda il mondo un posto migliore, dove tutta questa sofferenza non si verifichi più? Per noi che abbiamo una storia di oppressione alla spalle è necessario confrontarsi con l’eredità dell’Olocausto oppure vedere che cosa succede in Palestina? Quali sono i sentimenti che siamo autorizzati a provare noi cresciuti in un mondo di negazione dei diritti fondamentali? Mi facevo queste domande mentre scrivevo il libro».
Ha ricevuto critiche per non aver citato né i massacri del 7 ottobre né i brutali bombardamenti su Gaza.
«In realtà questi aspetti cruciali ci sono nel libro, anche se non sono menzionati deliberatamente. Faccio ampio riferimento alla disparità di trattamento dei palestinesi, alla negazione delle loro libertà: israeliani e palestinesi non sono mai sullo stesso piano. Fare riferimento ai massacri del 7 ottobre non avrebbe cambiato le mie conclusioni, il mio punto di approdo».
Ai suoi studenti scrive che non c’è distanza tra scrittura e politica. Vale ancora di più oggi, nella seconda era di Donald Trump?
«Essere scrittori conta, essere giornalisti conta, oggi forse ancora di più. Saper narrare il mondo è cruciale».
Scrive di essersi sempre sentito in pericolo in America. Prova la stessa sensazione anche oggi?
«Sì. L’America è una nazione violenta. In America si tende a dimenticare tutto ciò, perché si può vivere giorno per giorno senza che le cose ti tocchino davvero. Pensi a quante persone sono sopravvissute a sparatorie di massa in questo Paese. Ha visto cosa è successo e cosa continua a succedere a chi cerca di combattere ogni forma di apartheid o a chi protesta contro il trattamento riservato ai palestinesi? Sì, l’America è un posto insicuro, per me e per tanti altri».
In South Carolina è stato vietato «Tra me e il mondo» in una scuola: uno studente ha detto di essersi «vergognato di essere bianco» dopo averlo letto. Negli Stati Uniti la messa all’indice dei libri è ormai una pratica consolidata.
«La reazione di questo studente mi ha rattristato, ma ero triste per lui, non per me. La letteratura non serve a farti stare bene. A volte è sconvolgente, è angosciante. È triste che i genitori dei ragazzi non li stimolino a cercare, a indagare, a confrontarsi di più con il mondo».
Peggiorerà tutto questo sotto Trump?
«Sì, non ho dubbi. Una volta che è il Pentagono a emanare questi divieti sai di vivere in un luogo pericoloso».
Che cosa ha imparato dal suo viaggio in Africa?
«È stato un viaggio incredibile, denso di simbolismi. È stato speciale guardare per un momento, in solitudine, la grandezza dell’Oceano dall’altra parte e pensare ai miei antenati».
Dove hanno sbagliato i democratici nelle scorse elezioni? Dove ha sbagliato Kamala Harris?
«Kamala Harris ha fallito, ma credo che organizzare una campagna elettorale in cento giorni sia durissima. Penso che la decisione di Joe Biden di rimanere in corsa sia stata un errore enorme».
Lei ha ricevuto l’onore più grande per uno scrittore: essere incoronato da Toni Morrison.
«Provo eterna gratitudine, passerò il resto della mia vita e della mia carriera a provare al mondo di essere all’altezza delle sue parole».
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