Credo non esista cultura più pronta ad assorbire essenze dalle altre con cui viene a contatto di quella giapponese. Lo dico consapevole dei rischi che il generalizzare spesso comporta. E insisto. Nessuna in grado di metabolizzare l’assimilato con altrettanta velocità. Nessuna capace di eliminare le scorie di tale processo con pari nitore (più ecologica?). Inoltre nessuna in grado di rimanere ugualmente sé stessa ancorché arricchita del frutto predetto. Anche quando all’apparenza si direbbe che a essere inghiottita sia essa e non l’altro; del resto è successo una sola volta in tutta la sua storia e proprio in questa nostra attuale, apocalittica, era.
Mi fa piacere perciò approfittare dell’occasione della mostra al Museo d’Arte Orientale di Torino (MAO): «Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone» per cercare di sviluppare questo tema. La mostra «Haori» è in realtà molto più ricca e complessa di quanto si potrebbe di primo acchito ipotizzare e affonda le radici in una serie di fattori ed eventi molteplici. Pare che il catalogo uscirà nell’estate avanzata quindi, nell’attesa, qualche notizia e considerazione.
La chiave di volta sta, mi pare, nella collezionista prestatrice Lydia Manavello di cui in queste pagine ebbi modo di recensire la mostra di un’altra sezione della sua raccolta in visione al Museo del Tessuto di Prato nell’estate/autunno del 2023. In questa sua intrapresa si è fatta sostenere da Silvia Vesco, titolare dell’insegnamento di storia dell’arte giapponese a Ca’ Foscari, insieme hanno concepito e dato forma all’essenza della nuova esposizione.
Trovo assai apprezzabile che, essendo la collezionista già un’insegnante di storia dell’arte, si sia presa la briga di applicare a sé stessa un’intensa pratica didattica, mettendosi a studiare l’arte giapponese fino a diventare un’esperta di abbigliamento giapponese tradizionale in una fase delle più significative. In una sola quindicina d’anni ha raggruppato un archivio di alcune centinaia di rari kimono d’epoca, selezionati con un taglio particolare e storicamente assai interessante.
Appartengono cioè a quelli prodotti tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il secondo Dopoguerra, vale a dire l’epoca che va dal crollo del sistema feudale in Giappone – con la relativa restaurazione del governo imperiale nel 1868 nonché il fulmineo risveglio del Paese all’influsso occidentale – e la sua vertiginosa modernizzazione, la fatale ebbrezza del potere derivatone con conseguente politica di panasiatismo, ma anche la terribile catarsi della catastrofe atomica, fino al trattato di pace di San Francisco fra Sol Levante e Stati Uniti con alleati. Stiamo parlando di meno di un secolo in cui è avvenuto tutto e il contrario di tutto: perfetto per quanto indicato in apertura.
La mostra «Haori» è interamente dedicata all’abbigliamento maschile, il che è una novità dato che nella consuetudine dicendo kimono si pensa perlopiù a un abbigliamento femminile. E così è stato privilegiato il termine haori riferito in genere a corte vesti, come casacche aperte, da usare sopra l’abito. In passato era un capo di abbigliamento tipico degli uomini e di stile severo che serviva a occultare le vere vesti (juban) spesso assai ricche ma interdette, per le cicliche leggi suntuarie, alle classi borghesi e che quindi andavano celate ai più. Pratica che continua a tutt’oggi perché lo sfoggio del lusso è ancora in buona parte considerato pacchiano. Le donne presero l’abitudine di indossare haori come gli uomini più di recente, nel periodo tra le due guerre.
Va rilevato che questa mostra tiene dietro di poco a un’altra della collezione Manavello: «Kimono. Spiegel van Moderniteit» (18 luglio-8 dicembre 2024), realizzata in quel seminale, prestigiosissimo, Japanmuseum Sieboldhuis di Leida fondato da un tedesco, divenuto olandese, che può essere considerato il promotore della cultura giapponese in Europa, Philipp Franz von Siebold (1796-1866), negli anni 30 dell’Ottocento ben prima dell’apertura del Sol Levante all’Occidente nel 1854 e al successivo “boom degli impressionisti” a Parigi. Il titolo «Specchio della modernizzazione», tenendo conto anche delle altre quattro precedenti mostre della raccolta Manavello in Italia, sancisce definitivamente l’orientamento a creare un ponte particolare sugli influssi reciproci della conoscenza nel campo dei tessuti, della moda e della pittura tra Giappone e Occidente.
L’ispirazione a questo prezioso approccio comparatistico è forse stata attinta dalla famosa mostra e catalogo «Taisho? Chic. Japanese Modernity Nostalgia and Deco», curata da Kendall H. Brown alla Honolulu Academy of Arts nel 2001 nonché da «Kimonos Art Déco, mode, cinéma, photographie. Tradition et modernité dans le Japon de la première moitié du XXe siècle» dalla collezione Jeffrey Montgomery e curata da Annie van Assche nel 2006 presso il Musée du President Jacques Chirac a Sarran con la geniale installazione di Riccardo Blumer.
Non lo dico per cercare di stabilire dei record o delle primogeniture assolutamente, anzi per sottolineare la sistematicità e importanza oggi di questo genere di ricerche e diffusioni di valori nuovi nella crescente crisi di identità dei singoli, dei gruppi, delle regioni, degli Stati.
L’analisi dei kimono maschili, degli juban e degli haori di quel periodo, delle immagini che celano, di quelle che fanno intravedere, e di quelle che palesano e perché, nonché quanto assorbono digeriscono e tramutano in alimento per i propri concittadini, anzi no: per i propri compagni di viaggio e di ventura, è molto più preziosa di quel che pensiamo. Appunto: oggi. Il periodo coperto dalla mostra è quello in cui l’uomo è passato dalle tribù, dalle città, dagli Stati nazionali, dalle federazioni e confederazioni alla globalizzazione; che piaccia o no non si torna indietro. Ma la globalizzazione non può essere omogenizzazione. Occorrono le differenze, senza le quali non c’è creatività.
Forse la fratellanza, il mutuo influsso e sostegno, la scoperta e assorbimento dei valori altrui e offerta dei propri sono oggi più importanti dei retropensieri sull’imperialismo passato, giapponese o di chiunque altro.
Haori. Gli abiti maschili
del primo Novecento
narrano il Giappone
Torino, Mao, Museo
d’Arte Orientale
Fino al 7 settembre