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“Il potere diminuisce, l’influenza si sposta, e la legittimità muore nel momento in cui viene assunta piuttosto che guadagnata.”
— Xi Jinping
Donald Trump ha colpito duramente l’Iran, ma insieme al regime di Teheran è stata ferita anche la credibilità degli Stati Uniti. L’Europa è stata messa da parte, la diplomazia svuotata, e l’intero Occidente sembra incapace di trovare una risposta all’altezza. La storia è tornata a bussare alla porta, ma chi dovrebbe ascoltarla tace o balbetta.
Con i bombardamenti contro Natanz, Isfahan e Fordow, Trump ha superato una soglia che otto presidenti americani prima di lui avevano evitato con cura: l’attacco diretto alla Repubblica Islamica. Lo ha fatto subito dopo aver firmato al G7 un documento per la de-escalation, sorprendendo non solo gli alleati ma anche parte della sua stessa amministrazione.
In molti leggono dietro questa scelta l’influenza diretta di Benjamin Netanyahu. Israele ha colpito per primo, gli Stati Uniti hanno seguito. Ma quale superpotenza può dirsi tale se agisce su impulso di un alleato regionale? E perché concentrare risorse e attenzione sul Medio Oriente proprio ora, mentre la vera partita strategica si gioca con la Cina?
L’Europa è rimasta ai margini. I tentativi diplomatici di Francia, Germania e Regno Unito sono stati ignorati, liquidati con un secco “l’Europa non conta”. E mentre la diplomazia tace o balbetta – come nell’intervento impacciato del ministro Tajani – da Pechino arriva un messaggio chiarissimo: la storia si muove, e chi non sa adattarsi verrà superato.
Sotto la superficie, si intravede una crisi ben più profonda. L’Occidente non è solo marginalizzato sul piano politico: è privo di visione, incapace di pensarsi dentro la storia. La diplomazia sembra privata delle parole, ridotta a formule vuote, mentre altrove – in Cina, in Russia – si costruiscono narrazioni potenti, che parlano di passato e di futuro. Qui, invece, si vive sospesi in un eterno presente, come se la supremazia fosse garantita per inerzia, non da un impegno reale.
Sul fronte iraniano, le prospettive restano incerte. Teheran potrebbe rilanciare il conflitto oppure limitare la risposta per riaprire una trattativa. Ma in entrambi i casi il rischio di instabilità è alto. E se il regime dovesse cadere, cosa lo sostituirebbe? Un vuoto ingestibile che nessuno, nemmeno gli oppositori più duri, sembra desiderare davvero. Né in Occidente, né nel mondo arabo.
Si rafforza così l’ipotesi di un tacito scambio geopolitico: mano libera all’America contro l’Iran, in cambio del disimpegno sulla questione ucraina. I segnali ci sono, compreso il recente riavvicinamento con il Cremlino. Mentre Washington bombarda, i suoi emissari stringono mani a Minsk e Mosca accoglie il ministro iraniano con tutti gli onori.
Nei Paesi del Golfo l’inquietudine cresce. Nessuno vuole un Iran nucleare, ma anche il crollo del regime fa paura. Le monarchie non amano le incognite e detestano il caos. La Turchia osserva, senza sbilanciarsi. E tutti sanno che un Iran colpito non scompare: resta una potenza regionale, da tre millenni.
Infine, la memoria. L’attacco del 7 ottobre 2023, che molti hanno definito un pogrom, è stato rapidamente ridotto a semplice episodio. Per qualcuno “mai più” è rimasto solo un’espressione rituale. Ma c’è ancora chi, e non solo tra gli ebrei, crede davvero che certe parole vadano prese sul serio. E non dimenticate.
Oggi, mentre il Medio Oriente brucia, l’Occidente resta senza voce. Incapace di dare un nome alla propria crisi, privo di strumenti per leggere la storia che ritorna. Trump bombarda, l’Europa balbetta, la diplomazia non parla più. La storia è tornata. E ci chiede conto.