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5 Luglio 2025Il fallimento dei referendum sul lavoro promossi dalla CGIL ha rappresentato un passaggio rivelatore, più che uno scivolone tattico. Ha mostrato la condizione reale della sinistra italiana: priva di autonomia strategica, incapace di leggere il presente, ripiegata su una rappresentazione nostalgica del lavoro. Non è solo questione di quorum non raggiunto, ma di una sinistra che ha delegato al sindacato il compito di farsi soggetto politico, senza aprire un confronto interno né elaborare una visione propria. La mobilitazione referendaria, nata da un impulso generoso, si è trasformata in un gesto difensivo, l’ultimo appello a un immaginario ormai lontano.
Intorno, però, la realtà è cambiata. Il capitalismo ha spostato il baricentro: dalla fabbrica alla logistica, dalla produzione alla piattaforma, dal contratto al click. È emersa quella che Antonio Negri e Michael Hardt, già all’inizio degli anni Duemila, chiamavano Moltitudine: una composizione fluida, transnazionale e frammentata di soggettività produttive – freelance, partite IVA, tecnici in outsourcing, operatori di cura informali – che restano ai margini della rappresentanza tradizionale. Proprio lì si addensa oggi la tensione sociale, ma la sinistra continua a parlare con categorie del Novecento. Come osserva Cristina Morini, si rivolge a un mondo garantito che non coincide più con la composizione reale del lavoro.
Nel tentativo di rispondere a questa crisi, la sinistra si è affidata alla CGIL. Ma anche il sindacato, nel suo assetto attuale, appare in difficoltà. Le tensioni interne, il passaggio di consegne nella Funzione Pubblica, la centralità di Serena Sorrentino nella revisione del programma e l’eventualità di un congresso anticipato mostrano un’organizzazione impegnata a riorientarsi senza rompere con i propri limiti. Il rischio, come nota Michele Gilardi, è che la CGIL si trasformi in un soggetto para-politico, interessato più alla gestione del proprio spazio che alla costruzione di nuove alleanze sociali.
La campagna referendaria, più che rilanciare una strategia, ha riaffermato un’identità. Francesco Raparelli ha parlato di una mobilitazione simbolica, incapace di intercettare le trasformazioni profonde del lavoro. Il progetto di un sindacato di filiera, capace di unire garantiti e non garantiti, resta in sospeso. Allo stesso modo, l’obiettivo di superare l’impianto categoriale non ha ancora prodotto strumenti nuovi. L’assenza di una proposta sul lavoro autonomo, sulla rappresentanza reale, sul reddito, ha finito per allontanare proprio quei soggetti che la sinistra dovrebbe provare a riconnettere.
Nel frattempo, la destra ha costruito una grammatica egemonica intorno a concetti semplici ma pervasivi: semplificazione, merito, libertà fiscale. Colonizzando lo spazio tecnico e fiscale, la destra è riuscita a tradurre istanze sociali in strumenti politici, costruendo senso e identità.
La sinistra continua a mostrare tre nodi irrisolti. Il primo riguarda la mancanza di una lettura concreta delle dinamiche sociali: chi sono oggi i lavoratori, quali condizioni subiscono, quali forme di subordinazione regolano il loro quotidiano. Il secondo limite è l’incapacità di costruire un fronte comune tra soggetti frammentati: i precari, il pubblico impiego impoverito, le esperienze di innovazione che nascono fuori dai centri decisionali. Il terzo ostacolo è l’abbandono di una visione dello Stato come leva collettiva: non solo strumento redistributivo, ma anche motore di giustizia sociale e orientamento politico.
Non basta un cambio di linea o di leadership. Come ricorda Emiliano Brancaccio, è necessario tornare a leggere le condizioni concrete in cui si muove il capitalismo contemporaneo: debito, fiscalità, logistica, algoritmi. Ma serve anche un ritorno nei luoghi vivi della società: nelle filiere produttive, nei territori, nei rapporti reali. Per farlo, occorrono strumenti nuovi, un linguaggio aggiornato, alleanze sociali da ricostruire. Il sindacato può essere un alleato, ma non può supplire a una soggettività politica mancante.
Il referendum è stato una tappa, non un punto di ripartenza. Se la sinistra vuole tornare nella storia, deve imparare a leggere il presente e riconnettersi con le trasformazioni vive del lavoro. Non serve parlare a un mondo che non c’è più. Serve ritrovare la capacità di costruirne uno. (P.P.)
Cfr. Antonio Negri e Michael Hardt, “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’epoca dell’Impero”, Rizzoli, 2004.