di Daria Galateria
Henri Mahé è pittore: dal 1928 vive su una chiatta attraccata sul Lungosenna, che ha decorato con i colori di Utrillo e attrezzato con lumi a petrolio ( niente elettricità: bisogna godersi le luminiscenze del fiume), un pianoforte e alcune sedie, per ricevere una variopinta squadra di giovani artisti e qualche semi- celebrità. Tra loro c’è un medico quarantenne, Louis- Ferdinand Destouches — non ancora Céline — che più tardi la rimpiangerà: « piena di risa, di battute e di ricordi». I due, bretoni, saranno grandi amici per tutta la vita, sempre a zonzo, altissimi, dinoccolati, a grandi falcate per Parigi.
Esce ora La Brinquebale, la parola che traduce in argot la passeggiata a vuoto, bighellonando per Parigi ( come laflânerie del poeta Baudelaire, per esempio). Nella
Brinquebale ( ora nella magnifica traduzione di Michele Zaffarano e Marco Settimini per Medhelan, con la preziosa introduzione di Massimo Raffaelli e la postfazione di Éric Mazet), Mahé procede così: nel suo cospicuo fascio di lettere inedite di Céline (più di cento, molte riportate integralmente in coda), sceglie un passaggio, una cartolina, un biglietto: e lo commenta. Ecco quindi comparire Céline, vivo, nel quotidiano, e attorno a lui sorgere tutto un mondo.
Mahé è uno scrittore smagliante. «Tu vivi nel comico, io nel tragico », diceva Céline. Mahé si ritaglia la parte della spalla, ma è quasi un doppio: nella vita parlava costantemente in argot, la lingua del popolo, e qualcuno ha pensato che abbia influenzato Céline — ma Céline, se ha portato, come Dante, la lingua parlata in letteratura, ne ha adottato la sintassi, mentre il vocabolario è sì colorito e popolare, ma inappuntabile, squisito. È Mahé, anzi, a imitare all’inizio, per entrare in argomento, Céline: « L’ambulatorio di Clichy è l’antro della Strega, e il dottor Destouches se lo schiuma ogni sera nel corso delle sue visite». Mahé gioca a replicare le formule allucinate dell’amico e lo “ spasmo emotivo” dei tre punti — quando, alla fine, per Céline diventeranno, al di là dei capolavori e degli infami libelli antisemiti, il respiro stesso della pagina scritta.
Massimo Raffaelli li paragona splendidamente ai merletti dellamadre, ricongiungendo il ritmo tardo di Céline, il paria delle lettere, all’infanzia al Passage Choiseul, dove non si cucinava il sugo per preservare i delicati lavori della mamma ricamatrice. «Quegli occhi azzurri che tu rimani scorticato » , dunque, « due acquasantiere, il diavolo ci ha messo le dita». Non è mica cattivo, argomenta una paziente dell’ambulatorio: « Pensa che la sera, se diluvia, piglia un ombrello e va a prendere le mignotte per riaccompagnarle a casa!… Non sia mai che si bagnino la permanente! » . « Perdonateci per stasera, Elisabeth non sta bene » , avvisa Céline: Elisabeth Craig, la prima delle sue ballerine, occhi verde cobalto, capelli ramati; non cammina, scivola. « Domenica » , scrive Céline all’amico, «andiamo a sentire la fisarmonica (un bal musette) e poi ti faccio vedere un bagno per il quale mi devi preparare un affresco nautico » . Mahé si aspetta una casa fatiscente; trova invece un appartamento da parroco, mobili bretoni lucidi di cera, un pastello di ballerine di Degas ( le ballerine!), una finestrella con la vista di Parigi; sulla scrivania, pacchi di carte rilegate da mollette da bucato.
« Ho abbandonato tanti di quei manoscritti — braccato, schiaffato in galera » , scriverà Céline a un altro corrispondente, nel ’ 47; e nel ’ 48, alla segretaria Cannavaggia: ma sì, dia pure a Gallimard, l’editore, il preludio di Casse- pipe, « che ahimè non avrà più seguito » — e invece il manoscritto completo del romanzo del corazziere Destouches/Céline è ora riaffiorato, dopoil lunghissimo letargo che si sa, e tra poco lo leggeremo. Anche Mahé parla del buon dottor Gozlan, ebreo, che Céline glorifica ( anche nel romanzo ritrovato Londres).Trascorrono allegramente gli anni del successo, e compaiono le attrici famose (sono antipatiche), Yvette Guilbert e Cécile Sorel.
Céline ha « paura » di guadagnare: «Ho la pelle fatta di banconote» — ma da sempre invia alla figlia i soldi delle sue scoperte: dentifrici, pomate. All’amico Mahé, costretto a decorare sale da ballo modeste, Céline consiglia di adattarsi: «Bisognerà pure abituarsi a crepare un po’ alla volta » . ( Per sé, invece, scriverà alla segretaria Cannavaggia: « Voglio il rispetto delle virgole » ). Mahé «cicatrizza presto» una punta d’invidia. Morte a credito non ha il successo sperato, iniziano i deliri razzisti, le privazioni della guerra; Stalingrado è la rivelazione: il nazismo non prevarrà. Mahé scrive La Brinquebale nel 1967-68; è tornato a terra, l’amico è morto da tempo. Riprende, sempre ricco e travolgente, nel 1970- 75: Mahé è a New York.
La genesi con Céline è il racconto degli anni in cui l’amico è prigioniero in Danimarca («Sarò liberato dai carri armati russi, ma poi mi risbatteranno subito in cella! » ), e di ritorno in Francia, chiuso nell’autoassolutoria sindrome del perseguitato: «Sono i reumatismi che mi ammazzano e i giramenti di testa [il fischio della ferita di guerra] e il rimorso di esser stato così coglione, servile e compiacente » . Compiacente? Nelle lettere è caparbio: «Me ne sbatto, del torto o della ragione! Qualcuno mi spieghi perché mi hanno ridotto in questo maledetto stato di accattone, dopo 56 anni di vita di lavoro». È ancora oggi il problema: gli sbandamenti ideologici e l’accanita fatica di una scrittura sempre, anche nelle lettere, brutale, buffona, e di cristallo.