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NUOVO CINEMA MANCUSO
Basta puzzle, meglio i delitti
Nessun libro può starsene in pace sullo scaffale, se ha la parola delitto nel titolo. Peggio, se a suo tempo è stato un gran successo. Richard Osman ne ha scritti diversi, il giallo ha natura seriale anche se ogni delitto viene risolto entro la parola fine. Se ancora non bastassero, ci sono i cold case: mai risolti, sfidano l’investigatore dilettante, magari con un anatomo-patologo a fianco, in camice bianco e pinzette (i cadaveri d’annata sono più delicati dei morti freschi, se non si sono mummificati).
I nostri investigatori dilettanti sono quattro pensionati, che passano il tempo a trastullarsi con i cold case. Ma quando un omicidio succede dalle loro parti – un antipatico promotore immobiliare viene trovato morto – hanno l’occasione per passare all’azione. Come le loro vestaglie, gli occhiali, le parrucche, il completo di velluto, le parole crociate abbandonate sul tavolino. Del soggiorno: nella lussuosa casa di riposo, il giovedì è tutto loro.
Per la versione cinematografica, Chris Columbus ha scritturato Helen Mirren, Pierce Brosnan, Ben Kingsley e Celia Imrie. La meno conosciuta: ha lavorato una vita in teatro, ma era anche in “Mamma Mia!”, e in vari “Bridget Jones”, e forse anche in “Marigold Hotel”: pensionati britannici che vanno a godersi la pensione in India, dove la vita costa meno. Prima polemica, o nessuno si riebbe accorto del film Netflix: lo scrittore approva, i lettori no. Il personaggio dovrebbe essere un sindacalista tatuato, e avrebbero preferito Ray Winstone.
Questo andazzo di giudicare gli attori in base ai gusti dei lettori – neanche fossero i piatti da scegliere sul menu di un ristorante – finirà malissimo. Già ci stiamo arrivando. Ogni volta che viene annunciato il cast di un romanzo conosciuto, qualcuno che alza il ditino, o fa partire la polemichetta giornalistica. Non andava bene ai puristi – di cosa poi? chiamiamoli piccoli filologi, o prepotenti che giocano un gioco più grande di loro – neanche il meraviglioso Daniel Craig. James Bond non può avere le orecchie a sventola. E chi le vedeva, le orecchie a sventola, davanti a una simile figaggine.
Pierce Brosnan è rimasto sindacalista. Magari non tatuato. Ma gira con certi completi a quadratini e certe cravatte vistose. Ben Kingsley rabbrividisce, con la sua serie di deliziosi cravattini – prima della pensione faceva lo psicoanalista. Helen Mirren era già una spia nella vita di prima. Celia Imrie era una brava infermiera, camicie da notte a fiori e giacchino di lana.
“Siamo stufi di fare i puzzle, la ginnastica in acqua e cose così. Preferiamo gli omicidi e tutte le complicazioni che ci stanno intorno”. Helen Mirren è il capo, e all’occasione salta giù al volo da una macchina in corsa.
SUPERMAN
di James Gunn, con David Corenswet, Rachel Brosnahan, Nicholas Hoult, Isabela Merced, Milly Alcock
Durissima
fare qualcosa di nuovo, ma almeno James Gunn ci ha provato, forte del successo con “I guardiani della Galassia” (primo, secondo e terzo volume, per un po’ era questa la numerazione alla moda). Intanto ha un po’ di spirito: non si può sempre dire “ora salvo il mondo, ora salvo il mondo” e poi ritrovarselo a pezzi. Poi di nuovo a posto nel film successivo. I personaggi della DC comics sono più strapazzabili – purché restino eterni e iconici – rispetto ai colleghi della Marvel, arrivati primi al cinema e sempre lì a pavoneggiarsi. Ma anche loro scontano il disamore degli spettatori. Qui almeno Clark Kent – la controfigura umana, grazie al completo grigio e a un paio di occhiali – sparisce presto, è come se nessuno improvvisamente creda più a babbo natale. Lois Lane – l’attrice Rachel Brosnahan, che abbiamo conosciuto come la fantastica Mrs Maisel – lo invita a cena senza quei ridicoli espedienti. Lo intervista, anche. E pure discutono di etica giornalistica – diciamo etichetta, serve solo per lanciarsi amorose occhiate, e far di lei una donna lavoratrice e determinata. Le cose si fanno più complicate perché Superman è appena intervenuto nella guerra tra la Boravia e il Jarhnapur senza autorizzazione del governo Usa. Viene malamente conciato da un tale chiamato il martello di Boravia, non del tutto umano e al servizio dell’arcinemico Lex Luthor: Nicholas Hoult. Senza la testa rapata, sarebbe preciso Elon Musk.
SHAYDA – IN FUGA DALL’IRAN
di Noora Niasari, con Zara Amin Ibrahimi, Leah Purcell, Mojean Aria, Osamah Sami, Selina Zahednia
Cate
Blanchett produttrice, garantisce al film la visibilità internazionale. Non che non se la meriti, certo tagliare qualche scena (siamo sulle due ore) avrebbe giovato. Magari prendendo esempio dal film francese “Jusqu’à la garde” di Xavier Legrand, uscito nel 2017. 93 tesissimi minuti, intitolati “L’affido – una storia di violenza” per il pubblico italiano che non va al cinema se non lo rassicurano. “Maltrattano donne e bambini? aggiudicato”. Qui siamo in Australia, a Melbourne ma la storia comincia in Iran. Sahyda riesce a scappare da un marito violento, direzione Australia dove viene accolta in una casa protetta. Lavora, e assieme alla figlia Mona, 6 anni, cerca di ricostruire una parvenza di normalità. Arriva Mowruz, il capodanno persiano. Per l’occasione il tribunale ha concesso all’ex marito Hossein il diritto di visitare la figlia. Shayda teme che il marito approfitti dell’occasione per riportarla in Iran – nella scena iniziale, di grande effetto, Shayda spiega alla bambina di ricordare bene l’aeroporto di Melbourne dove sono sbarcate: “Se ti riportano qui senza di me”, insiste, “corri da uno degli uomini in divisa blu a cercare aiuto”. C’è anche il patrocinio di Amnesty International – parlandone come se fosse una cosa seria. Dovrebbero sapere che un film della giusta lunghezza e ritmo giova meglio alla causa di un film dove possiamo anticipare tutte, ma proprio tutte, le mosse.
HAPPY HOLIDAYS
di Sandar Copti, con Manar Shehab, Wafaa Aoun, Merav Mamorsky, Toufic Danial
Inizia
con la ricorrenza di Purim e si chiude con il Giorno del Ricordo, che in Israele commemora i caduti di tutte le guerra e le vittime del terrorismo. Al suono delle sirene si fermano le macchine in strada. Il titolo funziona per contrasto, racconta le vicende di una famiglia palestinese che vive a Haifa. Tranquillamente, se non per questioni private. Il regista, nato a Jaffa in una famiglia cristiana, ha il passaporto israeliano e ora vive in Qatar. Ha talento, su un fondo di antisemitismo incancellabile, che spesso affiora (meglio se evitate le interviste). “Via lo schifo dalla faccia”, dicono i maschi di casa intendendo il trucco. Lo sceneggiatore e regista – ha vinto nella sezione Orizzonti il premio per la migliore sceneggiatura alla Mostra di Venezia – ha un talento indiscutibile, al netto delle posizioni politiche. Innamorato della sua bravura, costringe a stare attentissimi per non perdere il filo. Se succede, non non è colpa vostra. Rami, palestinese, ha messo incinta la sua compagna ma vuole diventare padre. Lei fa la hostess, è israeliana e non vuole abortire. La sorella di Rami – Fifi – è ben integrata nella comunità israeliana, lavora part time e dopo un incidente d’auto finisce in ospedale. Dove si scoprono altre verità sgradite alla famiglia. Bisogna affrontare in (temporaneo?) rovescio di fortuna della famiglia. La matriarca esce a far spese, le carte di credito non funzionano. I maschi di casa non le hanno detto nulla.
NIGHT CALL
di Michiel Blanchart, con Jonathan Feltre, Natacha Krief, Jonas Bloquet, Romain Duris
Notte
di disordini a Bruxelles: sono le proteste locali che rilanciano il Black Lives Matter. Noi vediamo una porta chiusa, dentro c’è un cane che furiosamente abbaia (taglia e razza piuttosto aggressive). Da fuori, qualcuno armeggia, il cilindretto della serratura cade a terra, il cane si placa e smette di abbaiare. Sono gli inquilini che hanno dimenticato all’interno le chiavi, o forse le hanno perdute, e hanno chiamato un giovane fabbro per rientrare a casa. Il giovanotto tra una chiamata e l’altra studia, di nuovo il telefono squilla. Una volta sul posto, la faccenda si complica: Alice non ha i documenti, e neppure i soldi con sé. Dice che sono dentro l’appartamento. Il giovanotto (nero) inizia il suo lavoro, la porta si apre, il sacco da boxe – che Alice aveva indicato, quando il fabbro voleva qualche dettaglio sull’appartamento – effettivamente c’è, ma c’è anche una bandiera con la svastica, e parecchie armi. La ragazza intanto non si è fatta vedere. Né ci sono soldi a vista. Il nostro scappa nel negozio, cerca di telefonare alla polizia ma sono tutti fuori per i disordini. Poi tutto è velocissimo, mentre cerca i soldi vien sorpreso da un altro energumeno, combatte, gli infila un cacciavite nella pancia. Cerca di cancellare le tracce, e arrivano altri energumeni, interessati a quel che c’era nel sacco da boxe. Molti soldi pare, ma lui non li ha né visti né presi. Gran film di debutto, molto premiato.