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Piancastagnaio si racconta attraverso energia e cultura vivente
13 Luglio 2025UN MODELLO DI TRANSIZIONE ENERGETICA INTEGRATA PER LE AREE INTERNE
di Pierluigi Piccini
Teleriscaldamento geotermico, recupero della CO₂ e comunità energetiche: il caso di un piccolo Comune dell’Amiata che punta sull’energia pulita per rigenerare il territorio
Nel dibattito sulla transizione energetica, i territori delle aree interne sono spesso considerati marginali rispetto ai grandi centri urbani e alle zone industriali. Eppure è proprio in questi contesti, dove la coesione sociale e il rapporto con le risorse naturali sono ancora forti, che possono nascere esperienze innovative capaci di coniugare sostenibilità ambientale, inclusione sociale e sviluppo locale. È il caso di Piancastagnaio, Comune di circa 4.000 abitanti sul versante senese del Monte Amiata, che ha saputo trasformare la propria dotazione geotermica in una leva per la decarbonizzazione e la rigenerazione territoriale.
Un piano coerente e integrato
L’attuale processo di transizione energetica a Piancastagnaio non nasce dal nulla. È il frutto di una pianificazione avviata nella precedente amministrazione comunale, oggi in fase avanzata di attuazione, che ha saputo attivare risorse del PNRR, alleanze pubblico-private e strumenti partecipativi per realizzare interventi ad alto impatto sistemico.
Gli assi portanti del progetto sono tre:
- Estensione del teleriscaldamento geotermico all’intero territorio urbano e produttivo;
- Recupero e valorizzazione della CO₂ geotermica, grazie a un accordo con Enel Green Power e Nippon Gases;
- Costituzione di una Comunità Energetica Rinnovabile (CER) basata sulla produzione e condivisione locale di energia pulita.
Teleriscaldamento geotermico: efficienza, equità, riduzione dei consumi fossili
Il sistema di teleriscaldamento, alimentato con calore residuale dalla centrale geotermica locale, è in fase di ampliamento per raggiungere abitazioni private, edifici pubblici, strutture sportive, scuole e aree artigianali. Il progetto, cofinanziato con fondi PNRR, ha tre obiettivi principali:
- riduzione delle emissioni climalteranti e dell’inquinamento locale;
- abbattimento della spesa energetica per famiglie e imprese;
- incremento dell’attrattività insediativa del territorio.
L’infrastruttura consente inoltre di garantire servizi energetici accessibili alle fasce sociali più fragili, favorendo un modello di transizione inclusiva.
CO₂ geotermica come risorsa: nasce la filiera della “CO₂ verde”
Uno degli elementi più innovativi è la realizzazione di un impianto per la purificazione e liquefazione della CO₂ presente nei fluidi geotermici. Grazie a un accordo tra Enel Green Power e la multinazionale Nippon Gases, Piancastagnaio diventerà un centro strategico per la produzione di CO₂ di origine rinnovabile, utilizzabile nei settori alimentare, medicale e farmaceutico.
Questa operazione consente:
- il riutilizzo di una componente spesso trattata come scarto o problema ambientale;
- la creazione di occupazione industriale qualificata;
- il posizionamento del Comune in una filiera nazionale innovativa e a basso impatto.
Comunità Energetica Rinnovabile: partecipazione e autonomia
Parallelamente, l’Amministrazione ha avviato la costituzione di una CER che coinvolge cittadini, imprese e istituzioni locali. L’obiettivo è promuovere autoproduzione, autoconsumo collettivo e scambio locale di energia rinnovabile (soprattutto fotovoltaica), in una logica di solidarietà energetica.
La CER sarà uno strumento chiave per:
- rafforzare la resilienza energetica del territorio;
- valorizzare il coinvolgimento civico e l’educazione alla sostenibilità;
- redistribuire i benefici economici dell’energia prodotta localmente.
Un modello replicabile per le aree interne
L’esperienza di Piancastagnaio dimostra che anche un piccolo Comune può essere protagonista della transizione energetica, a condizione che esistano:
- una visione strategica di lungo periodo;
- un forte radicamento territoriale delle politiche pubbliche;
- la capacità di attivare reti istituzionali, industriali e civiche;
- un uso intelligente delle risorse disponibili (geotermia, fondi PNRR, sinergie con utility e partner tecnologici).
In un momento storico in cui la decarbonizzazione rischia di essere vista come un processo calato dall’alto o riservato alle metropoli, il “modello Piancastagnaio” offre un paradigma territoriale replicabile: non un’eccezione, ma una possibile regola per lo sviluppo sostenibile delle aree interne italiane.
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MARCO BIROLINI
Sono più di 13 milioni gli italiani (su un totale di 59 milioni) che vivono nelle “aree interne”, cioè lontano da ospedali, stazioni, scuole e altri servizi essenziali. Zone prevalentemente montane, dalle Alpi agli Appennini, ma non solo: molti comuni periferici e “ultraperiferici” (come sono classificati i più remoti, sulla base della loro distanza da un centro urbano) sono infatti localizzati nelle isole minori, quelle che d’inverno diventano impossibili da raggiungere se il mare si fa grosso, oppure anche in territori costieri, come il Delta del Po. Un’Italia minore, poco raccontata dalle cronache e distante dalle metropoli – non solo in senso geografico-, che resiste come può. Sempre più faticosamente, alle prese con uno spopolamento costante che da molti è considerato inesorabile. Le cifre, in effetti, non inducono all’ottimismo: in 10 anni le aree interne hanno perso quasi 700 mila abitanti. Non solo. Secondo i dati Istat, entro un decennio l’82% dei Comuni di questi territori sarà catalogato in “declino demografico”, con punte che arriveranno al 92,6% nel Mezzogiorno.
Una tendenza negativa difficile da rallentare, e forse impossibile da invertire. Ma il governo, con il nuovo piano approvato a marzo, che attua (e aggiorna) la Strategia nazionale per le aree interne 2021-2027, ci vuole almeno provare. Per raggiungere l’obiettivo sono stati messi sul tavolo 359 milioni, cui si aggiungono altre risorse provenienti da Regioni e Fondi europei. Oltre alle 72 aree identificate dal precedente piano 2014-2020 (ora scese a 67) se ne sono aggiunte altre 43 (più 13 individuate dalle Regioni). La Strategia, nell’intento dell’esecutivo, dovrà essere “uno strumento cruciale”, in grado di promuovere la crescita sociale ed economica, possibilmente tramite la valorizzazione delle risorse locali, “per creare opportunità di sviluppo”. Nello specifico, “è fondamentale assicurare una crescita sostenibile a lungo termine, promuovere l’inclusione sociale e accompagnare i territori con riforme strutturali e il potenziamento della capacità amministrativa. Gli interventi devono consentire ai cittadini di restare nelle loro comunità, migliorando al contempo la qualità della vita e le condizioni socio-economiche locali”. Ma il “diritto di restare” (e magari di tornare) si attua assicurando in primis opportunità lavorative, da alimentare tramite l’innovazione tecnologica, il miglioramento delle infrastrutture e dei trasporti pubblici,
il mantenimento (e se possibile l’aumento) dei servizi primari. Se chiudono scuole, negozi e uffici postali, è difficile immaginare che le famiglie rimangano nei piccoli borghi, e tantomeno che vi si trasferiscano. Guai però pensare che tutte le aree interne siano uguali: ognuna ha le sue specificità, e su queste bisogna declinare necessariamente la Strategia. Un approccio “ tailor made”, sottolinea il documento, fondato sulle “necessità concrete” di ciascuna territorio. Se non si seguirà questa filosofia, se i soldi saranno spesi male, lo spopolamento avanzerà in modo irreversibile, in un quadro nazionale (ed europeo) già pericolosamente avviato su un piano inclinato. Si prevede infatti che l’Italia, dopo il picco di 60,3 milioni di abitanti registrato nel 2014, scenderà sotto i 55 milioni nel 2050 e sprofonderà a quota 46 nel 2080. Sono soltanto stime, tuttavia preoccupanti, che forse nemmeno l’immigrazione consentirà di contenere e correggere: il piano presentato dal governo le recepisce con crudo disincanto, quasi con fatalismo.
Perché se è vero che “nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova”, sono però “molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano”. In termini ancora più espliciti, alcune aree “non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”. Una visione pessimistica, per usare un eufemismo, che ha suscitato numerose reazioni sdegnate non solo da parte dell’opposizione, ma anche dagli enti locali interessati. Il ministro per la coesione Tommaso Foti ha ribattuto che «bisogna leggere le 196 pagine del piano, e non solo tre righe», poi ha garantito l’impegno suo e dell’esecutivo per garantire un futuro ai borghi. Polemiche a parte, uno spiraglio viene dai dati resi pubblici dall’Uncem, l’unione dei comuni montani, secondo cui sono in aumento gli italiani che vanno a vivere in montagna. Dal 2019 al 2023 almeno 100 mila persone hanno lasciato le città, complice anche l’effetto pandemia, per traslocare sotto le cime. Un processo da sostenere, e se possibile da incoraggiare. Altrimenti l’Italia si riempirà di villaggi fantasma.
«Ci sono caratteristiche ed esigenze molto diverse, la strategia andrà diversificata su ogni realtà – spiega Alessandro Santoni, sindaco di San Benedetto Val di Sambro (Bologna) e coordinatore della Consulta dei piccoli comuni dell’Anci – Sarà importante anche condividere di più le scelte, anche a livello di politica locale: non servono decisioni calate dall’alto. Le prime leve su cui bisogna agire sono il sostegno alla famiglia e una fiscalità agevolata. Questi due temi fanno parte dei quindici punti fondamentali di un documento che stiamo elaborando e che in autunno sottoporremo a Governo e Regioni». Secondo Santoni, lo slancio del ritorno ai piccoli centri va colto anche allacciando un filo diretto con i centri urbani, a partire dalle politiche abitative. « Da noi ci sono tante case libere e pochi abitanti, in città accade il contrario. Bisogna coordinarsi per incrociare domanda e offerta, a patto però che si migliorino le infrastrutture: ci sono borghi davvero difficilissimi da raggiungere. Il rischio solitudine? Direi che non c’è. L’unico momento in cui ci si sente davvero soli è quando le nostre richieste non vengono ascoltate da nessuno».