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Forza Italia cambia, o almeno ci prova. Antonio Tajani lancia una riforma interna: per la prima volta in trent’anni i coordinatori regionali saranno eletti dalla base e non più nominati dall’alto. Una svolta? Forse. Ma la partecipazione promessa è filtrata: votano solo i tesserati da almeno due anni. Così il partito si apre, ma con cautela. In realtà, più che rivoluzione è un modo per rafforzare la posizione del segretario, mostrando rinnovamento senza cedere troppo potere.
Il tutto con il placet della famiglia Berlusconi. Marina tiene i contatti, Pier Silvio lancia messaggi di visione, e Tajani si muove in equilibrio: rilancia i temi cari al fondatore – identità liberale, riformismo moderato – e inserisce qualche messaggio simbolico, come la proposta sullo ius scholae («meglio chi va a scuola dei maranza») per distinguersi senza spaccare la coalizione. Una strategia che tenta di mostrare autonomia senza rompere con nessuno. Ma la pace è fragile, e il partito resta fortemente dipendente dalla famiglia.
Intanto, fuori dai palazzi romani, la situazione è più caotica. Nel Mezzogiorno, il centrodestra non riesce a trovare candidati competitivi. In Puglia, dove governa il centrosinistra da anni, si improvvisano alleanze di convenienza, si riciclano ex avversari e si arruolano personaggi controversi pur di riempire le liste. Manca una classe dirigente solida, e lo stesso vale per la Campania. Le partite elettorali non si giocano più contro gli avversari, ma tra correnti interne che si dividono le poltrone dell’opposizione già prima del voto.
Anche al Nord la situazione è bloccata. A Milano, in caso di caduta anticipata di Sala, la destra rischia di trovarsi ancora una volta senza un candidato all’altezza. Tajani vorrebbe una figura civica, la Lega e FdI spingono per i propri fedelissimi. Nessuno sembra convincere davvero. L’esempio di candidati “civici” sbagliati – da Bernardo a Michetti – ha lasciato il segno. E ora ci si muove tra veti incrociati, nostalgie missine e ambizioni personali, senza una vera strategia.
Come se non bastasse, si litiga anche sulla legge elettorale. Tajani propone un proporzionale con premio di maggioranza, forse persino un doppio turno. La Lega si oppone: con l’attuale sistema è sovrarappresentata. Meloni teme il Rosatellum, ma cambiare potrebbe indebolirla. Ognuno difende la propria posizione. Tutti temono di perdere.
Il risultato è un centrodestra in piena contraddizione: sul piano nazionale si mostra unito e riformista, ma sul territorio è fragile e disorientato. Tajani vuole costruire un partito più moderno e radicato, ma senza rompere con chi lo tiene in piedi. Fratelli d’Italia punta tutto sulla fedeltà alla leader. La Lega difende quel che resta del suo peso. E nel frattempo, mentre i partiti cercano candidati e strategie, resta il vuoto.
Un vuoto di idee, di persone, di direzione. Che nessuna riforma di statuto, nessuna telefonata da Arcore, nessun civico “di qualità” potrà davvero colmare, se non si cambia anche la sostanza della politica.