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8 Agosto 2025FOTOGRAFIA
Il grande fotografo è morto ieri a Genova a 94 anni Nella sua opera una mappa silenziosa, senza voce, che parla attraverso il bianco e il nero, attraverso il vuoto e la soglia del reale
Luce lieve che si posa. È un respiro trattenuto. Così si apriva lo sguardo poetico di Gianni Berengo Gardin, il grande fotografo morto ieri a Genova all’età di 94 anni: una mappa silenziosa, senza voce, che parla attraverso il bianco e il nero, attraverso il vuoto e la soglia del reale. Era nato a Santa Margherita Ligure, ma l’infanzia e gli studi li aveva fatti a Venezia: il silenzio liquido dei canali, luogo originario in cui il suo occhio si curvava verso il quotidiano diventato mito.
La fotografia per lui non era durata: era presenza. Ogni immagine è ceppo di memoria, radice che si protende nel presente. Era nato il 10 ottobre 1930 in una famiglia sospesa tra l’acqua e la montagna, tra l’architettura di pietra e l’orizzonte liquido della laguna. E da quel luogo abbandona la retorica della bellezza per cercare l’ombra umana nei volti, nei gesti, nella pasta delle mani d’argilla o d’acciaio che lavorano, faticano, ancora resistono.
Arriva sulla scena pubblica nel 1954, quando le sue prime fotografie sono pubblicate su “Il Mondo”: non sono prime pagine ovvie, sono lampi di ambiente quotidiano: gesti domestici che diventano briciole di vita sospesa, di sguardi interrotti sotto la luce delle finestre. È un incontro – inconsapevole, trasparente – tra un animo attento e i destini di una nazione in mutamento.
Poi Milano lo accoglie, città di ciminiere e luci fredde, di grattacieli in costruzione e officine dove il metallo diventa respiro. È qui che Berengo Gardin cattura la transizione italiana: l’industria come paesaggio umano, il progresso che ha il profumo del sudore, delle mani segnate, della dignità in trincea. Non violenta, la sua fotografia: testimonianza vibrata dalla partecipazione discreta.
Nel 1969, con Morire di classe insieme a Carla Cerati – un’opera drammatica, necessaria – entra nei manicomi con l’acutezza di uno spettatore empatico. Lì, nei corridoi infiniti, tra volti che chiedono solo di esistere, lo scatto diventa accusa muta, memoria che ha il peso della coscienza. Senza violenza, senza parola: la fotografia come rito di accoglienza e di sfida civile. E poi, il paesaggio dell’Italia arcaica: risaie, borghi minimi, gente che alza gli occhi al tramonto. È affabulazione dello sguardo: la sua macchina, penna che trascrive corpi e silenzi, va a cercare la provincia che pulsa, che resiste nel gesto lieve – la mietitrice, l’usura del lavoro, il volto piegato sotto il sole. Non com’è bello, ma come è – con una pietà che non si fa indulgente, ma partecipe. È una poesia camuffata da cronaca.
E ancora Foto Piano: trentatré anni, dal 1979 al 2012, a seguire Renzo Piano nei suoi cantieri. Ma non come cronista, piuttosto come scrittore di pietra e luce: ogni ponte, ogni pilastro in costruzione è annotazione del gesto architettonico, del tempo sospeso tra cemento e idea. Le sue fotografie non fotografano l’archistar, ma traducono la fatica silenziosa che dà corpo all’architettura, al gesto umano che disegna lo spazio.
Arcana è la Venezia nelle sue fotografie delle navi da crociera: immagini dilatate che dilania-no la prospettiva, e nello stesso tempo riannodano un legame intimo tra città e specchio d’acqua. La bellezza non è più pura: diventa cuore che lotta per respirare sotto un cielo che pare stritolato dal cemento navale. È vertigine e fedeltà insieme. E con tutto questo, l’arché della sua ricerca è l’essenzialità. Non c’è retorica nel suo bianco e nero: c’è assenza di fronzoli, c’è minimalismo, c’è l’osservazione che si fa parola in luce, in contrasto. La sua fotografia – limpida, essenziale – è prosa senza avanzi, frase che ti arriva dritta, senza metafora apparente, eppure carica di epifania. Giovanna Calvenzi descrisse i suoi scatti come «fotografia limpidamente essenziale, dagli intenti di sobria onestà, che non vuole interpretare o suggestionare ma solo raccontare» – ed è esattamente questa: sobrietà che sa di verità.
Il suo archivio, vasto come un mondo, include centinaia di migliaia di immagini, forse più: documenti di un’Italia che pulsa, che ricama memoria. È testimonianza, è diario, è presenza che resiste al tempo. I riconoscimenti non mancano: premi come il Prix Brassaï, il Leica Oskar Barnack Award, il Lucie Award, fino alla Hall of Fame Leica. Onorificenze – laurea honoris causa, Ambrogino d’oro – segnature pubbliche che suggellano un’arte che è mestiere, testimonianza, resistenza umana.
Ha collaborato con grandi testate italiane ed estere (oltre a “Il Mondo”, “Domus”, “Epoca”, “L’Espresso”, “Le Figaro”, “Time”, “Stern”), pubblicato oltre 260 volumi fotografici e esposto i suoi lavori in oltre 360 mostre personali in Italia e all’estero. Ha partecipato a Photokina di Colonia, all’Expo di Montréal nel 1967 e all’Expo di Milano nel 2015, alla Biennale di Venezia e alla celebre mostra “The Italian Metamorphosis, 19431968” al Guggenheim Museum di New York nel 1994. Con il supporto del Fai, ha esposto a Milano nel 2014 e a Venezia nel 2015 l’importante reportage di denuncia sul passaggio delle grandi navi da crociera a Venezia. Le sue immagini fanno parte delle collezioni di importanti musei e fondazioni culturali, tra cui l’Istituto Centrale per la Grafica e il Maxxi di Roma, il Moma di New York, la Bibliothèque Nationale e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi, il Musée de l’Elysée di Losanna, il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid. Attualmente, fino al 28 settembre, la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia ospita la mostra “Gianni Berengo Gardin fotografa lo studio di Giorgio Morandi”, a cura di Alessandra Mauro: l’esposizione raccoglie i più significativi scatti realizzati da Gianni Berengo Gardin nel 1993, quando venne chiamato per documentare i luoghi dove aveva lavorato il grande pittore emiliano, in occasione dell’apertura a Palazzo d’Accursio a Bologna del Museo Morandi.
Berengo Gardin era autore che scriveva con la luce. Penna silenziosa, mestiere umile e potente al tempo stesso. Ogni sua immagine è una frase preziosa che disegna l’Italia, le sue storie, i suoi silenzi, le sue risonanze. Non plateau visivi, ma storia taciuta che riprende voce attraverso le sue fotografie.