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Tutti smarriti e nello stesso tempo smodati, esagerati, violenti. Ma contro l’ira da web e le pulsioni maligne c’è un’antica virtù da mettere alla prova
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Questo pezzo è nato per un caso. Da quello che gli antichi greci chiamavano kairòs, un rapido momento di illuminazione che ti apre a un pensiero o a un’emozione. Stavo guardando una serie in costume, quelle che si consumano per insonnia o per dimenticare l’orrore che ci circonda, e più lunghe sono meglio è. La parola magica è stata “temperanza” (in quella serie, The Gilded Age, era legata al più prosaico abuso di alcol). Ecco cosa è successo, mi sono detta: abbiamo perso la Temperanza, quella che era una virtù etica è diventata un disvalore. Per i filosofi greci essa, la Sofrosune, è l’esatto contrario – e quindi anche il controveleno – della Hybris, l’onnipotenza che sfida gli dèi, proprio quella che stiamo praticando oggi in tutti i modi possibili, in un girone infernale. Siamo tutti smarriti e nello stesso tempo smodati, esagerati. E quindi violenti, e non solo a parole. In una ridda infinita di troppe fake news, di troppe guerre feroci, di troppi bambini uccisi e rubati, di ragazzi senza più voglia di vivere, di cattive maniere, di incontinenza verbale, di narcisismo maligno di cui Trump è grande maestro, di giornalisti che non lasciano parlare gli interlocutori, di titoli intollerabili, di notizie che si smentiscono e si dissolvono in un baleno, di anatemi e censure. Di genitori che picchiano gli insegnanti dei loro figli, di uomini e donne che hanno perso il contatto. Di troppe chat, troppi tatuaggi, troppi coltelli in tasca, troppo esibizionismo, troppi tristi guardoni, troppi deep-date, troppo poco amore. Soli, nel clamore della babelica post-verità, e un futuro indecifrabile.
Nelle carte dei tarocchi la Temperanza è raffigurata come una donna che ha in mano due brocche d’acqua, e travasa l’una nell’altra. Ha l’aria serena, è un gesto di vita quotidiana, a volte ha intorno un bambino o due che la guardano. Quattordicesima carta degli arcani maggiori, simboleggia l’equilibrio tra gli opposti, la moderazione e l’armonia. Ma è anche molto di più: è la quarta delle virtù cardinali nella dottrina cattolica, dopo prudenza, giustizia e fortezza. Quattro virtù che tutte insieme costruiscono il carattere della persona, e la temperanza ne conclude proprio il percorso. La stessa immagine calma e rassicurante della donna dalle due brocche la si ritrova nell’elegantissima raffigurazione del Pollaiolo: quel versare da un contenitore all’altro, magari per smorzare il vino con l’acqua, sicuramente avrà un significato… “Si cita sempre la Repubblica, per la temperanza come virtù sociale, ma Platone ne tratta anche nel Simposio, dove Eros è il mediatore con il divino”, ci dice la filosofa Annarosa Buttarelli, docente all’Università Cattolica di Milano. “Quel semplice gesto è il simbolo della capacità di mediazione fra sé e il mondo. E’ la virtù che fa uscire dalla stretta dicotomica tra bene e male, tra giusto e ingiusto”. Ma che ne è oggi di quel gesto? La temperanza – ovvero la misura che ognuno dovrebbe dare a sé stesso – l’abbiamo travolta con il pensiero duale. “Prendiamo il caso emblematico del caos attuale in cui siamo immersi, dove confondiamo conflitto e guerra”, continua Annarosa Buttarelli che ai temi morali ha già dedicato il saggio Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe (Tlon 2023) e che da settembre è in libreria con Pensiero osceno. Lo scandalo delle donne che pensano (sempre edito da Tlon). “Il conflitto è l’esatto contrario della guerra, ha bisogno della sapienza filosofica, della temperanza, per mediare tra le posizioni diverse, solo così lo si supera. Pensare l’impensabile, suggeriva Angela Merkel. Una filosofa del Novecento come Maria Zambrano aveva colto l’importanza di questo concetto”.
Saltando le grandi filosofie sistematiche proviamo a capire cos’è oggi per noi, per la cultura del nostro occidente disorientato, nel nostro caos cognitivo. A riportare nella filosofia contemporanea il tema della temperanza così caro alla filosofia antica era stato Michel Foucault, uno dei protagonisti del pensiero strutturalista che ha tanto influenzato gli anni dai Sessanta agli Ottanta del Novecento. Gli dedicò un seminario ( Tecnologie del sé, pubblicato da Boringhieri) e il tema percorre tutti i suoi tre volumi sulla storia della sessualità, in particolare l’ultimo, La cura del sé (Einaudi). Esercitare l’autocontrollo per raggiungere “la sovranità di sé, in un’esperienza in cui il rapporto con sé stessi assume la forma non solo di un dominio ma di un piacere senza desiderio e senza turbamento”. Nella stessa direzione è andato anche Pierre Hadot, studioso del pensiero greco e del neoplatonismo, che ha lavorato sulle meditazioni di Marco Aurelio ( La cittadella interiore, Vita e pensiero) riproponendo la formula degli “esercizi spirituali”, perché intende la filosofia non come sistema teorico compiuto ma come modo di vivere (titolo anche di un suo libro). Un ruolo, quello di questi due pensatori francesi, che ha aperto la strada all’esperienza contemporanea delle pratiche filosofiche, sempre più diffuse, intrecciate spesso con la psicoanalisi o in un sincretismo culturale con altre forme di meditazione.
Vediamo allora chi gli esercizi spirituali li ha fatti. Lezioni di felicità, Esercizi di filosofia per il buon uso della vita, edito da Einaudi, è il libro della scrittrice Ilaria Gaspari, laurea in Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e dottorato alla Sorbonne di Parigi. Il suo è un percorso nelle scuole della filosofia greca antica, da quella pitagorica a quella stoica, dalla scettica alla cinica. Rincorrendo la Sofrosune, la forma di saggezza “per capire cosa è abbastanza per sé stessi”, Ilaria Gaspari ha provato a vivere una settimana da epicurea per uscire dal cinismo della nostra epoca, che disprezza l’aristotelica via di mezzo: “Con Epicuro ho cominciato a trattare i miei desideri con scanzonata familiarità, a essere generosa e non avara di quello che provavo, come bisogna essere con gli amici”. Sotto l’influsso dei social viviamo in una rappresentazione continua, con in più l’ossessione identitaria, esisti per quello che appari, annota la giovane scrittrice. “Si continua a stare nella realtà come spettatori, e questo modo di guardare suscita l’invidia, lo diceva già Aristotele. La spinta costante a identificarsi porta tutti a essere immersi in un’immensa asta pubblicitaria. Entriamo in relazione con chi ci sembra al nostro livello, con l’illusione di un rapporto orizzontale”. E’ un cambiamento non solo culturale, anche antropologico. “Come non vederlo come il prodotto dell’ideologia dell’uno vale uno? Il risultato non è l’uguaglianza, bensì restare indifferenziati: nel momento in cui l’identità diventa perenne, non ci si rinnova. La storia della filosofia dimostra che hai bisogno dell’altro, la propria voce deriva da questo rapporto”. Che cosa rimane del desiderio: “Mi sono resa conto che cercavo di disciplinarlo, mi sembrava meno faticoso rinunciare a qualcosa anziché ragionare, lavorarci. La prima cosa che ho realizzato è quanto di superfluo ci fosse nella mia vita”. Che cosa le fa più paura? “La rabbia così diffusa. Ci riporta al mondo pre-dialettico, quando l’altro da te veniva annientato dall’affermazione del proprio io. Gli algoritmi hanno intercettato le passioni tristi, che sono disgreganti, e ci siamo assuefatti”. Per Ilaria Gaspari la nostra soglia di attenzione si è abbassata e tutto è successo con grande velocità, riportandoci a una dimensione quasi arcaica. “Velocità e violenza sono legati. La cosa che mi spaventa di più è la violenza dei ragazzi molto giovani sulle ragazze. E’ vero, l’eros lo abbiamo liberato, ma è una liberazione che si è rivelata incompleta, quando compare la gelosia non la si sa gestire. Vado nelle scuole con il mio libro, e mi dicono che di amore non sanno proprio parlare”.
La pratica filosofica, in un mondo in cui non ci sono più grandi sistemi teorici, deve ripartire dalla biografia, e da una biografia ben temperata, come il clavicembalo di Bach… La metafora è del filosofo e psicoanalista di formazione junghiana Romano Màdera, che nel 2006 a Milano ha fondato Philo, Scuola superiore in analisi biografica a orientamento filosofico. Questa sua scuola, attiva anche a Roma, è il punto di arrivo della sua esperienza di docente universitario, prima nell’Università della Calabria, poi a Ca’ Foscari di Venezia e a Milano Bicocca. Nel lavoro per le tesi di scienze sociali, antropologia filosofica e filosofia morale, le sue materie di insegnamento, partiva infatti dall’analisi della biografia dello studente per individuare il tema da portare all’esame di laurea. “Mi facevo raccontare la loro storia, finché non trovavamo insieme il nocciolo che era per loro più importante. La biografia non poteva ovviamente esistere fuori dalla storia collettiva, ma doveva essere appunto temperata da una forte motivazione personale, ed esprimere sì l’educazione ricevuta, i valori, i riconoscimenti degli altri, ma soprattutto il proprio riconoscimento”, spiega Romano Màdera. “La temperanza deve essere temperata a sua volta, non può portare ad accomodamenti rispetto alla realtà, deve tenere insieme tutte le sue caratteristiche di virtù cardinale che si ricorda delle altre – prudenza, giustizia e fortezza. Esistono infatti anche gli usi perversi delle virtù… Prendiamo per esempio il coraggio, può deviare in temerarietà o in vigliaccheria, così anche la temperanza può deviare in rigidità o riduttività – quelli che dicono: eh, non esageriamo – rispetto a un fenomeno rilevante. Qual è allora la temperanza di cui avremmo bisogno di questi tempi? Quella che riesce a tenere insieme tutti gli elementi”. E una prova dell’importanza veramente capitale di questo saper “tenere insieme” Romano Màdera la dà anche nel suo ultimo libro, Una spiritualità laica, La vocazione di essere finalmente umani (Bollati Boringhieri), dedicato ad atei e credenti, sganciandosi dall’opposizione con la dimensione religiosa e pensando a una spiritualità aperta al confronto. “D’altra parte la parola laòs, da cui deriva laico, in greco antico vuol dire popolo. Sbagliamo a pensare che laico voglia dire non credente, semplicemente non è un sacerdote. La spiritualità, la ricerca del senso della vita, è di tutti”.
Alla fine, qual è il carattere complessivo della temperanza? Stefano Levi della Torre, architetto e pittore, infaticabile presenza nei dibattiti su Israele, autore di Dio, edito da Bollati Boringhieri (“La questione di Dio è una questione troppo seria per essere lasciata ai soli credenti, riguarda la forma complessiva della conoscenza e del pensiero”), osserva le immagini della Temperanza che ci ha lasciato la storia dell’arte. Ecco le sue parole come didascalie perfette. Quella del Pollaiolo, sovrana su un trono, è spirito sovrano di potere su sé stessi e sulla qualità del potere. Controllando il getto dell’acqua nel vino ci dice che è contro l’ossessione della purezza, propria del fondamentalismo, del razzismo e dell’estremismo ideologico. La postura della Temperanza di Giotto, invece, si contiene silenziosa nel riquadro oscuro, mentre l’Ira a lei contrapposta ne fuoriesce urlante, chiassosa, scarmigliata. L’Ira mostra impudicamente le sue pulsioni, l’intimità del seno, del cuore, mentre la Temperanza è sovranamente ordinata, ordinante e pudica. Da decifrare il suo diadema, forse uno specchio che riflette il cielo, la cui dimensione relativizza gli eventi immediati e li confronta con l’eterno e nell’eterno li contestualizza. Giotto mette il morso alla parola, al linguaggio in generale, e trattiene la spada, cioè l’azione. In Ambrogio Lorenzetti infine contempla la clessidra, che relativizza nel tempo le passioni immediate, la clessidra ha funzione simbolica analoga al diadema-specchio di Giotto. “Considerare la complessità delle singole azioni e delle reazioni ad esse, vedere il positivo e il negativo della relatività storica di ogni cosa e di ogni idea. Capire le mutazioni nel tempo di ogni realtà. Sono queste le indicazioni che ci vengono dalla virtù della temperanza”, conclude Stefano Levi Della Torre. E come memento cita il Kohèlet, cap. 4 (a cui ha dedicato uno studio anche Erri De Luca): “Ogni fatica e tutta l’abilità messe in un lavoro non sono che invidia dell’uno contro l’altro. Anche questo è vanità e un inseguire il vento”.
E se provassimo a fare un po’ di digiuno digitale? E’ il suggerimento che ci arriva da Donatella Siti, ricercatrice dell’Università del Salento. Non c’è momento migliore, sembra dirci. In fondo l’aveva già previsto Foucault, parlando di tecnologia del sé. L’onda della rivoluzione digitale era in arrivo, ma avevamo lasciato solo agli scrittori di fantascienza e di romanzi distopici di prevedere le conseguenze degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Resistere alle tentazioni del web e alle notifiche inviate dall’algoritmo per catturare la nostra attenzione potrebbe diventare la nuova frontiera dei bisogni e degli appetiti, una nuova pratica di astinenza per mettere alla prova l’antica virtù della temperanza. Forse ce la possiamo fare.
Nelle carte dei tarocchi la Temperanza è raffigurata come una donna che ha in mano due brocche d’acqua, e travasa l’una nell’altra
E’ la quarta delle virtù cardinali nella dottrina cattolica. E’quella “che fa uscire dalla stretta dicotomica tra bene e male, tra giusto e ingiusto” Il coraggio “può deviare in temerarietà o in vigliaccheria, così anche la temperanza può deviare in rigidità o riduttività” “Controllando il getto dell’acqua, ci dice che è contro l’ossessione della purezza, propria del fondamentalismo e dell’estremismo ideologico”