
‘A Melhor Mãe do Mundo’ revela a força invisível de quem carrega o mundo nas costas
14 Settembre 2025
“Io, la donna che visse due volte”
14 Settembre 2025Vent’anni fala fotografa Graciela Iturbide entrò nel luogo più intimo della Casa Azul. Per riprendere gli oggetti della sofferenza di Kahlo. Quei ritratti sono esposti a Milano con altri lavori sulla pittrice messicana «venerata come martire»
di stefano bucci
«Una santa, una santa peccatrice molto umana, una martire laica che ha superato il dolore dipingendo». Graciela Iturbide riassume il mistero di un mito, quello di Frida Kahlo, capace di rinnovarsi continuamente, di essere sempre contemporaneo. Un mito che ha trasportato Frida (al pari di Andy Warhol) nel ristretto empireo dei personaggi che hanno saputo trasformare, molto prima del tempo dei social media, la propria immagine e la propria vita in un’opera d’arte totale capace di colpire il cuore e il portafoglio. Come dimostra la quotazione record di 34,9 milioni di dollari raggiunta a New York il 16 novembre 2021 da Sotheby’s per l’autoritratto Diego y Yo (1949), la somma più alta mai pagata all’asta per un’opera di un artista latinoamericano, con Frida che supera il precedente record del marito Diego Rivera.
Alla creazione di quel mito Graciela ha contribuito in prima persona con El baño de Frida, il progetto del 2005 (per il quale ha ricevuto nel 2008 il premio internazionale della Hasselblad Foundation) che le ha aperto fisicamente le porte della stanza da bagno di Frida rimasta chiusa per oltre cinquant’anni per volontà prima di Diego Rivera e poi di Dolores Olmedo, collezionista-mecenate nonché grande amica della Kahlo. «Io, come tutti i messicani, conoscevo Frida anche prima di fotografare il suo bagno — spiega con ironia —. Quando mi è stato chiesto di fotografare il bagno, mi sono ritrovata a raccontarla in un altro modo: attraverso gli oggetti del suo dolore, gli strumenti della sua tortura, le stampelle, il corsetto, i busti, il grembiule ospedaliero macchiato, la gamba artificiale, i flaconi di medicinali, la borsa dell’acqua calda».
Figura venerata come una santa in Messico, Kahlo trascende per Graciela la mitologia, per apparire come «una donna radiosa e forte», che ha superato le proprie sofferenze grazie alla pittura e che della morte ha detto: «Spero che l’uscita sia gioiosa, e spero di non tornare mai più».
Lo sguardo di Graciela Iturbide (che per certificare la sua vicinanza a Kahlo ha chiuso El baño de Frida con un autoritratto con i propri piedi immersi nella vasca di Frida evocando il dipinto Lo que el agua me dio del 1938) è uno dei punti di osservazione proposti da Vittoria Mainoldi, curatrice della mostra Attraverso i miei occhi: Frida Kahlo e la costruzione del mito in programma dall’8 ottobre alla MyOwnGallery-Superstudio Più di Milano, che mette a confronto la visione di Graciela (successiva alla morte di Frida) con gli scatti (contemporanei all’artista messicana) di Edward Weston, Nickolas Muray, Imogen Cunningham, Lucienne Bloch, Leo Matiz, Julien Levy, Lola Álvarez Bravo, Bernard Silberstein, Gisèle Freund — 75 scatti che ne mettono in luce le passioni, le fragilità, il talento e contribuiscono a edificarne il mito.
Il bagno è quello di Casa Azul, oggi sede del Museo Frida Kahlo, nel quartiere Colonia del Carmen di Coyoacán, a Città del Messico, la stessa casa (dai muri blu cobalto, bagno escluso: è dipinto di un anonimo bianco) dove era nata il 6 luglio 1907 (anche se poi lei deciderà che il suo vero anno di nascita sarebbe dovuto essere il 1910, il primo della rivoluzione messicana), la stessa casa dove Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón vivrà per qualche anno con il marito Diego Rivera, la stessa dove morirà il 13 luglio 1954 ufficialmente per un’embolia polmonare (tra le ipotesi circolate, la morte «aiutata» da Diego o il suicidio) e dove sono ancora conservate le sue ceneri.
Nel 1957 Rivera donò la casa (a cui nel 2018 Marco Mengoni ha dedicato una canzone, La Casa Azul) e il suo contenuto per trasformarla in un museo, inaugurato l’anno dopo e oggi uno dei più visitati del Messico. Proprio nella stanza da letto accanto al bagno Frida passò buona parte della vita, riuscendo a dipingere grazie allo specchio sul soffitto che la madre le aveva fatto installare dopo l’incidente causato da un autobus che l’aveva costretta, diciottenne, a restare a letto per nove mesi, lasciandole danni irreparabili alla colonna vertebrale, alle costole, al femore, a entrambi gli arti inferiori, all’apparato genitale: «Ci sono stati due grandi incidenti nella mia vita — diceva Frida —: uno è stato il tram, l’altro Diego. Diego è stato di gran lunga il peggiore».
Iturbide, a sua volta, definisce così conversando con «la Lettura» il legame tra Frida e il pittore e muralista messicano (1886-1957): «Una storia complicata, una relazione giocata sulla libertà reciproca, in cui entrambi potevano avere amanti, uomini o donne, un’affermazione di libertà dalle convenzioni che entrò in crisi quando proprio a casa di Rivera, i due all’epoca vivevano separati, Frida incontrò Trotsky e se ne innamorò».
Che emozione ha provato in quel bagno? «Qualcosa di incredibilmente forte — racconta Graciela dalla sua casa studio di Città del Messico — perché il dolore si avvertiva ancora vivo, presente. Ma confesso che a intrigarmi era stata anche l’idea che questi oggetti, compresi gli animali impagliati e il manifesto di Stalin, fossero coperti dalla polvere del tempo». Che idea si è fatta di Frida? «Frida era comunista, ma nel religiosissimo Messico è ancora venerata come una santa, a cui si possono chiedere miracoli. Le faccio un esempio: una volta, una chicana (gli americani di origine messicana, ndr) mi ha voluto far vedere un santino della Madonna di Guadalupe, ma con il volto di Frida, a cui aveva chiesto di aiutarla ad attraversare la frontiera». E come artista? «Come pittrice era brava, molto brava, ma Frida va oltre la pittura. Il suo dolore, la sua sofferenza valgono molto di più. I suoi non sono solo dipinti, sono macchine sceniche capaci di raccontare il dolore come la gioia. La sua è una pittura di libertà, che non si può ingabbiare in un movimento. Lei stessa quando André Breton, che nel 1939 le dedica una mostra a Parigi, la definisce “una surrealista creatasi con le proprie mani”, si dissocia subito, quasi a voler riaffermare la propria indipendenza, la propria capacità di raccontare emozioni e stati d’animo, non tanto la tecnica o la perfezione formale».
Cresciuta in una famiglia tradizionale, Graciela Iturbide (nata a Città del Messico il 16 maggio 1942) studia cinema presso il Centro Universitario de Estudios Cinematográficos, ma il suo percorso si rivolge presto alla fotografia grazie all’incontro e all’ispirazione derivata da Manuel Álvarez Bravo, di cui divenne assistente negli anni Settanta. Da subito il suo lavoro si caratterizza per un forte radicamento nella cultura messicana («Il Messico? Un Paese bellissimo, potente e forte con una situazione non facile»; il presidente Trump? «Un mostro. Lo odio») con un’attenzione particolare ai temi dell’identità, della morte, del sincretismo religioso e dei ruoli delle donne. «Sono una fotografa di strada, fotografo solo quello che mi colpisce al cuore, con le mie immagini mi piace raccontare prima di tutto il Messico degli indigeni, il meraviglioso passato degli Aztechi e Montezuma, quella sua unicità». Non solo: «Con i miei scatti voglio raccontare anche l’anima che si nasconde dietro l’apparenza».
Forse per questo Iturbide sente così vicino Pier Paolo Pasolini: «In Italia sono stata a Roma, a Firenze, a Napoli, in Sicilia, a Milano, città splendide, ma a colpirmi al cuore sono stati soprattutto i luoghi di Pasolini, a cominciare da Ostia, perché ho capito quanto lui, anarchico e libero proprio come Frida, cercasse quello che di bello si può nascondere nelle realtà anche più difficili e oscure».