Venezia le ha reso omaggio con il Leone alla carriera Hollywood la voleva cambiare, la pittura l’ha salvata “Mia madre diceva sempre: sei tu il capitano della tua nave”
dalla nostra inviataArianna Finos
LVENEZIA a ribelle Kim Novak di vite ne ha vissute tante e a 92 anni è proiettata nel futuro. La donnache visse due volte si racconta in un film confessione, Kim Novak’s Vertigo di Alexandre O. Philippe, presentato alla Mostra di Venezia dove, ricevendo il Leone d’oro alla carriera, ha ricordato: «Dobbiamo unirci, essere creativi, guardare a quel che succede, salvare le democrazie». Al nostro incontro, maglietta a righe, gli occhi grandi, è un miscuglio di calore, anticonformismo, semplicità. Una conversazione che attraversa i decenni, gli snodi di vita e carriera.
Un documentario senza filtri.
«Con Alexandre mi sentivo come al confessionale. Sono cattolica, lui è riuscito a tirare fuori tutto quello che sentivo, quello che pensavo».
Nacque in una famiglia povera, sua madre tentò di soffocarla con un cuscino. Lei lottò per vivere.
«Mi sono pentita di aver raccontato certe cose di mia madre e mio padre, loro non avrebbero voluto. Sentivo il respiro che veniva a mancare, mamma si sentiva in colpa per quel gesto, così cercò sempre di farmi credere in me stessa. Ero una bambina chiusa, quando arrivava qualcuno mi nascondevo. Lei mi faceva ripetere allo specchio: “Sono il capitano della mia nave”. Mi è rimasto dentro. Chiunque può sbagliare, si compensa con altro. Mia madre ha più che compensato con quelle parole preziose che mi hanno guidato».
Il suo vero nome è Marilyn.
«Da cattolica mamma mi chiamò Pauline, e lo affiancò a Marilyn. Gli studios dissero che c’era già un’altra attrice con quel nome e sarebbe stato come invadere un territorio altrui.Volevano cambiarmi il cognome: Kit Marlowe, perché erokitten-like,simile a un gattino. Ma in me non c’era nulla del gattino. Dissi: il cognome non lo cambio, sono le mie radici».
A Hollywood ha lottato per restare se stessa.
«Era come se mi togliessero il respiro cercando di trasformarmi.
Analizzavano i film e i divi di successo: “Rifacciamo Jean Harlow, Greta Garbo”. A me non sarebbe dispiaciuto essere Greta Garbo ma volevo restare fedele a me stessa, seguire la regola di mamma, essere il capitano della mia nave».
Accadeva che la “prestassero” ad altre produzioni, come un oggetto.
«Come un pezzo di arredamento.
Decidevano perfino sulla vita privata. Ti “abbinavano” a qualcuno perché la stampa ne scrivesse. Uscivi dalla limousine con uno sconosciuto. Era tutto finto. E logorante».
Quindi fondò una casa di produzione sua.
«Fu importante, ma frustrante perché non andò come speravo. Non avevo vero potere».
Ha lavorato con Frank Sinatra, Rock Hudson, Liz Taylor.
«Che occhi, Sinatra. Era gentile, protettivo, mi mise subito a mio agio. Mi ammalai e mi mandò un cofanetto di libri di Thomas Wolfe che conservo ancora. Col tempo, si perse un po’ tra carriera e fan».
L’incontro con Yul Brynner, ai tempi de “La donna de lago”? «Ci presentano, la sera viene nel mio cottage. Gli dico che non posso uscire con lui perché devo lavarmi i capelli per il set del giorno dopo. Mi risponde “te li lavo io, sonobravissimo”. Mi fece uno shampoo e un massaggio incredibile: ero tutta in fiamme, i capelli ritti dall’emozione (ride,ndr.)».
“Picnic” con William Holden: la sensualissima scena di ballo.
«Willam era un attore formidabile ma non amava ballare, quindi era molto nervoso. Giravamo in Kansas, mentre infuriavano dei tornado. Il regista era impaziente, voleva la scena subito. Io guardavo Holden, lui guardava me: io insicura davanti a un uomo così affascinante, lui insicuro perché doveva danzare.
Saranno stati i tornado e la nostra tensione, ma venne fuori una chimica unica. E un film speciale».
Altro ruolo iconico quello di “Una strega in paradiso”.
«Il mio personaggio preferiva l’amore alla magia, e in questo un po’ mi riconoscevo, ero innamorata del regista Richard Quine. I costumi erano splendidi, il mantello bordeaux e rosa era il mio preferito.
Me lo lasciarono tenere, ma lo persi nell’incendio della mia prima casa.
Tra i ricordi, fu la perdita piùdolorosa».
In che modo fu scelta per “La donna che visse due volte”?
«Perché una collega rimase incinta.
Ma all’epoca non lo sapevo, meglio così, altrimenti mi sarei sentita in difficoltà».
Hitchcock aveva la fama di regista difficile, ma con lei non lo fu.
«Per nulla. Era ossessionato dalla precisione, ma lasciava che James Stewart ed io mettessimo un po’ di noi stessi nei ruoli. Lavorare con lui fu una liberazione: era il mio secondo film fuori dal controllo degli studios. Con Stewart la sintonia fu naturale, quasi da fratello e sorella».
A un certo punto ha sentito il bisogno di lasciare Hollywood.
«Credo nei segni. La mia casa fu distrutta prima dal fuoco e poi da una frana: era un messaggio. E finì l’era del dittatore Harry Cohn, il produttore della Universal prima e della Columbia poi. Senza di lui nessuno poteva prendere una decisione».
Cosa l’ha salvata?
«La pittura. Altrimenti non so cosa sarebbe successo. All’epoca non avevo diagnosi, oggi so di essere bipolare. Non dipingo quadri “carini”, ma ciò che sento. Mi ha ispirata anche la guerra in Ucraina: una madre e una figlia, la perdita e la memoria. Ho scritto una poesia che accompagna l’immagine. Recitare mi ha dato la fama, la mia vera chiamata è l’arte».
Poi ci sono i suoi adorati cavalli. È ancora in sella?
«Ho tre cani e quattro cavalli: sto sempre con loro. Persino mio marito l’ho conosciuto grazie agli animali».