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18 Ottobre 2025Dall’officina al cloud. Gramsci, l’intelligenza artificiale e la nuova accumulazione del capitale
Ragionare sull’accumulazione oggi, anche a Siena, significa misurarsi con la sfida di rinnovare la politica nei territori: non nei volti, ma nella capacità di capire, analizzare e costruire. Basta avere la bussola giusta.
di Pierluigi Piccini
Quando Antonio Gramsci scrive, tra il 1930 e il 1934, le pagine di Americanismo e Fordismo, osserva un mondo che sta cambiando. L’America non è più soltanto un luogo geografico: è un laboratorio di un nuovo modo di produrre, di vivere, di pensare. Nelle catene di montaggio di Henry Ford, nell’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor, Gramsci riconosce la nascita di un nuovo regime di accumulazione: una forma di capitalismo capace non solo di produrre merci in quantità, ma di plasmare l’uomo stesso come parte del processo produttivo.
L’“americanismo” per lui è più di un modello industriale: è un progetto di civiltà. Implica la disciplina del corpo, la standardizzazione dei comportamenti, la razionalizzazione del tempo, la costruzione di una cultura che renda il lavoro di massa accettabile e persino desiderabile. Il capitalismo, scrive, “rende etico ciò che è economico”, integrando la vita quotidiana nel ciclo della produzione.
A un secolo di distanza, l’intelligenza artificiale svolge la stessa funzione. È la nuova catena di montaggio, non più di acciaio ma di dati. L’algoritmo è la macchina che ordina, seleziona, valuta, decide. Il lavoratore non è più l’operaio che monta pezzi identici, ma il tecnico, il programmatore, il data-labeler, il rider, il creatore di contenuti che alimenta la rete. Il principio è lo stesso: estrarre valore dall’attività umana, disciplinarla, trasformarla in flusso di capitale.
Gramsci avrebbe capito perfettamente questa transizione: avrebbe riconosciuto, dietro la promessa di libertà digitale, la nuova forma di comando del capitale.
Gramsci osserva con lucidità la metamorfosi del lavoro fordista. Nelle sue parole, Taylor “sviluppa nel lavoratore gli atteggiamenti macchinali e automatici necessari alla massima produttività”, riducendo l’intelligenza operaia a riflesso meccanico. Ma in quella riduzione, nota Gramsci, si nasconde anche una contraddizione: per mantenere il sistema, serve una nuova figura professionale, l’operaio qualificato, capace di sorvegliare, regolare, intervenire sulla macchina.
Questo doppio movimento — svalutazione del lavoro intellettuale e insieme necessità di competenze tecniche più alte — ritorna oggi con l’intelligenza artificiale. L’IA promette di automatizzare mansioni cognitive, analitiche, persino creative. Ma per funzionare ha bisogno di un’enorme infrastruttura di lavoro umano: programmatori, manutentori, data scientist, annotatori di dati, moderatori di contenuti, specialisti in prompt engineering.
Dietro l’apparente smaterializzazione del lavoro si cela un nuovo taylorismo, più sottile ma non meno reale. Non c’è più la catena fisica, ma la catena logica. Le piattaforme digitali, come le fabbriche fordiane, spezzano il lavoro in micro-compiti, lo cronometrano, lo valutano con algoritmi, lo rendono intercambiabile. La differenza è che oggi il controllo non passa attraverso il sorvegliante con il cronometro, ma attraverso la dashboard dell’applicazione.
Il “gorilla ammaestrato” di Gramsci è diventato il “lavoratore profilato”: un corpo digitale tracciato, valutato, remunerato a clic o a consegna. Eppure, come allora, anche oggi emerge una nuova fascia di lavoratori qualificati, i tecnici dell’algoritmo, gli ingegneri dei dati, i manutentori del sistema, coloro che, pur non possedendo i mezzi di produzione, li fanno funzionare. Sono loro — non gli ingegneri di fabbrica ma gli ingegneri del codice — a rappresentare il cuore del nuovo processo di accumulazione.
Nel capitalismo fordista, l’accumulazione avveniva attraverso la produzione materiale: più automobili, più beni, più consumi. Nel capitalismo digitale, l’accumulazione passa attraverso l’estrazione di dati, la monetizzazione dell’attenzione, la proprietà dei modelli e delle infrastrutture computazionali.
L’intelligenza artificiale è una macchina di accumulazione perfetta. Ogni interazione, ogni ricerca, ogni clic genera informazione; ogni informazione alimenta il capitale. Il valore non è più nel prodotto, ma nella previsione: sapere cosa il consumatore farà, cosa desidererà, cosa voterà.
Il capitale, diceva Marx, si accumula estendendo il proprio dominio sul lavoro. Oggi si accumula estendendo il dominio sul sapere, sui dati, sulla conoscenza. La proprietà dei mezzi di produzione è diventata proprietà dei mezzi di calcolo. Chi possiede il cloud, possiede la fabbrica. Chi controlla il modello linguistico, controlla la catena di valore cognitiva.
L’americanismo di Ford disciplinava il corpo. L’algoritmismo di oggi disciplina la mente.
Nel Novecento, il cuore del blocco produttivo era l’operaio massa. Oggi, il cuore del nuovo ciclo è il lavoratore cognitivo: ingegneri del software, designer, tecnici del dato, operatori digitali, addetti alla logistica algoritmica.
Ma la loro condizione non è omogenea. Accanto all’élite iperqualificata si estende una moltitudine di lavoratori intermittenti, freelance, crowd-workers, creatori di contenuti che vivono nella precarietà.
La ricomposizione sociale non produce unità ma frammentazione. Non c’è una classe operaia compatta, ma una costellazione di micro-figure, spesso isolate. La vecchia distinzione tra “operai qualificati” e “non qualificati” si è spostata sul piano cognitivo: tra chi governa l’algoritmo e chi ne subisce gli effetti.
Questa nuova stratificazione rende difficile qualsiasi organizzazione collettiva. Il sindacato fatica a entrare nelle piattaforme; la politica non conosce più il lavoro che vorrebbe rappresentare; la sinistra non ha un’idea di blocco sociale che tenga insieme queste soggettività dispersive.
Eppure, proprio qui si gioca la partita del XXI secolo: nella possibilità di riconoscere il nuovo proletariato cognitivo e digitale come soggetto politico.
La destra al governo ha capito che il nuovo regime di accumulazione richiede un blocco sociale specifico: imprese industriali e tecnologiche, banche, ceti medi alti, lavoratori autonomi e famiglie tradizionali. È su questa base che costruisce consenso, redistribuendo in alto, stabilizzando i garantiti, placando i timori dei produttori.
La sinistra, invece, non ha ancora compreso che il terreno del conflitto non è più solo quello del salario o del welfare, ma quello della proprietà del sapere e della tecnologia. Non basta rivendicare più spesa sociale: occorre riformare il rapporto tra capitale e conoscenza, tra produzione e democrazia.
Gramsci avrebbe parlato di “rivoluzione passiva”: un mutamento in cui le forze dominanti si rinnovano senza cambiare sostanza, incorporando elementi di modernità per consolidare il loro potere. L’IA è oggi la grande rivoluzione passiva del capitalismo contemporaneo: promette libertà, efficienza, crescita, ma in realtà riproduce le disuguaglianze e concentra la ricchezza.
Senza un nuovo blocco sociale, la sinistra resta fuori gioco: non interpreta, non organizza, non parla ai lavoratori della nuova economia. Non costruisce egemonia, cioè visione del mondo.
Eppure la possibilità di un’azione diversa esiste, e passa dai territori. È nei territori che la sinistra può tornare a fare politica, non marketing. È lì che può leggere i cambiamenti, formare competenze, mettere insieme saperi, creare esperienze. Serve una bussola, non uno slogan. Serve la capacità di analisi, la conoscenza della società, la volontà di costruire dal basso un nuovo modo di pensare e di amministrare.
Anche in realtà come Siena, questa direzione è possibile: non c’è bisogno di inventarsi giovani candidati per la prossima tornata elettorale — le elezioni ci sono ogni anno — ma di dare spazio a chi conosce, studia, interpreta i processi in corso. Rinnovare la politica non vuol dire cambiare volti, ma cambiare metodo: tornare a leggere la realtà, a costruire visione, a formare classe dirigente.
Gramsci ci ha insegnato che il potere non si esercita solo con la forza o con la ricchezza, ma con la direzione intellettuale e morale. Il fordismo riuscì a vincere perché seppe trasformare una tecnica in un’etica, un modello produttivo in un progetto di società.
Oggi l’intelligenza artificiale svolge la stessa funzione: promette efficienza, sicurezza, crescita, ma chiede in cambio obbedienza, trasparenza, disponibilità totale.
La sinistra può rinascere solo se capisce che la vera battaglia non è contro la tecnologia, ma per il suo uso sociale. Che la nuova catena di montaggio non è di ferro ma di codice, e che dentro quella catena c’è ancora un lavoratore — umano, pensante, vulnerabile — che attende di essere riconosciuto.
L’egemonia del capitale digitale non è inevitabile. Può essere rovesciata solo da una nuova egemonia culturale, che metta al centro la dignità del lavoro, la giustizia nella distribuzione, la libertà nella conoscenza.
Come un secolo fa, la sfida non è tornare indietro, ma cominciare daccapo.