Salen a la luz en Pompeya apartamentos de clase media repletos de objetos intactos
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7 Agosto 2022di Vincenzo Trione
Nel settembre del 1919, in una libreria di Monaco di Baviera, Max Ernst acquista un numero della rivista «Valori Plastici». Vi sono riprodotti, in bianco e nero, alcuni quadri di Giorgio de Chirico. Ne resta profondamente sedotto. «Avevo l’impressione di riconoscere qualche cosa che mi era da tempo familiare, come quando un fenomeno già visto ci rivela tutto un territorio del nostro mondo onirico che rifiutavamo», dirà. Tra gli esiti di quella fascinazione, Au rendez-vous des amis (1922). Una sorta di ricostruzione della preistoria del surrealismo. Insieme con Raffaello e Dostoevskij, ecco, a destra, la sagoma di de Chirico, trasformato in un busto posto al di sopra del profilo di Breton, quasi in segno di protezione.
Qualche anno prima — è il 1919 — Ernst dipinge Aquis submersus. Una piazza d’Italia d’impronta dada. Una fontana-piscina accoglie un busto dechirichiano capovolto, in parte immerso nell’acqua. In alto, un orologio a forma di Luna. Decisiva è soprattutto l’influenza de Il grande metafisico di de Chirico, incastro di strumenti geometrici, di cornici e di righe in una piazza ferrarese, circondata da palazzi rinascimentali e scolpita da ombre lunghe. Si osservi Der Architekt (1919). Esibendo un’inattesa tridimensionalità, le figure nascono dalla combinazione tra blocchi plastici eterogenei. Al centro, una marionetta-architetto.
Ernst si situa tra citazione e profanazione. Risponde alla solennità sospesa cara a de Chirico con un liberatorio gusto dello sberleffo. Si ricordi la cartella del 1919-1920, intitolata Fiat Modes, che contiene un altro esplicito omaggio al Pictor Optimus. Ernst, però, si porta oltre ogni teatralità. Rende reali i manichini, che assumono le sembianze di sonnambuli o di robot. Inoltre, accentua la dimensione visionaria dello scenario. Nulla è solido. Le colonne sembrano piegarsi. Non vi è nessuna immobilità. La città pietrificata di de Chirico svanisce, come spazzata da un terremoto. Crollano mura e archi. Le statue lievitano, vagano nel cielo. Il silenzio è riempito di piante, animali, macchine, tubi, mostri, oggetti industriali. Dalle torri fuoriescono braccia, mani, capelli: macchine celibi che danzano.
Un’ultima traccia, Anthropomorphische Figur (1930). Anticipando gli esercizi paranoici di Dalí, de Chirico, in L’angelo ebreo (1916), aveva dipinto un intreccio di linee e di triangoli, di squadre e di righe, sormontato da un grande occhio. Ernst compie una scelta diversa. Attraverso una sequenza di cornici, fa avanzare la sagoma e preleva dettagli che, poi, innesta su altri corpi.
Il dialogo critico e problematico con le visioni dechirichiane potrebbe rappresentare l’ideale prologo alla prima grande retrospettiva dedicata in Italia a Ernst, prodotta da Electa e curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech, dal prossimo 4 ottobre nelle sale del Palazzo Reale di Milano (fino al 26 febbraio). È stato scelto un vasto corpus di opere, tra dipinti, sculture, disegni, collage, fotografie, gioielli e libri illustrati. Materiali che sono stati ordinati in un rigoroso itinerario che ripercorre la parabola del Pictor Doctus: gli anni tedeschi di formazione, segnati dall’incontro con il dadaismo; la fase del surrealismo, esaltata dagli amori perversi con Gala e con Leonora Carrington e caratterizzata da amicizie e collaborazioni con i protagonisti del gruppo di Breton; l’avventura negli Stati Uniti, il soggiorno a Sedona (in Arizona) in una casa decorata da amici pittori e il ricorso a tecniche «casuali» come dripping, decalcomania e frottage (con una matita si strofina un foglio per far affiorare asperità sottostanti); e ancora, il ritorno in Europa e la riscoperta dell’antico; infine, lo sguardo verso le stelle, in una stagione dominata dall’interesse per la fisica, l’astrofisica e la patafisica.
Non è facile decifrare queste peripezie di poetica. Che, tuttavia, rimandano sempre a una precisa filosofia dell’arte. Analogamente a de Chirico, Ernst si affida a una colta strategia dell’oscillazione. Si comporta come un criminale che, dapprima, rassicura la sua vittima e, poi, la colpisce alle spalle. Intraprende un viaggio in cui ogni meta si rivela provvisoria. Si muove tra esperienze non contigue — metafisica, classicismo, dadaismo, surrealismo, informale — che frequenta, saccheggia e, poi, tradisce. Inoltre, si appropria di tanti stratagemmi, che reinventa e stravolge. Si abbandona così a un valzer di adesioni e distanziamenti. Ponendosi sulla soglia tra informe e forma, tra liquidità e solidità.
In una prima fase, Ernst si avvicina al dadaismo, proponendo una provocatoria declinazione delle tecniche del collage e del fotomontaggio. Sperimenta disinvolti traslochi di blocchi di narrazioni visive; riprende consapevolmente alcuni artifici rinascimentali con forti valenze simboliche (la prospettiva); e trascrive l’evidenza realistica di figure e oggetti. L’esito, però, non è mimetico. Ernst non attenua la forza d’urto scaturita da accostamenti talvolta strampalati. Ma vuole portarsi verso le vette di un onirismo assurdo. Come una veglia a occhi aperti, incurante di ogni calcolo razionale.
Sapiente nell’effettuare ininterrotti slittamenti tra piani lontani, Ernst offre anche una scandalosa interpretazione dell’idea di naturalismo, suggerendo il superamento di ogni antitesi tra vita organica e inconscio. Incline a investigare sul sottosuolo dell’ego, dipinge sequenze di anamorfosi, di allucinazioni, di alterazioni fisiognomiche. Pronto a misurarsi con il perturbante, inteso come «qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che invece è affiorato» (Freud), compie discese verso gli inferi, dove i demoni infrangono i recinti della ragione. Sorgono così mascherate di organismi disturbanti, che anticipano le cosmogonie informali. Esseri dalle spire contorte che, però, sono dotati di un’evidenza plastica non troppo diversa da quella dei blocchi scultorei di Hans Arp. Cellule che hanno forza illusoria e peso. Capricci della natura, che fissano con allarmante fissità. Una misteriosa postumanità di personaggi dalle mille facce: colombe, maschere, fiori, usignoli. Abitanti di paesaggi visionari, quasi reincarnazioni delle diavolerie di Bosch. Come entità preverbali che si lasciano catturare da intenzioni semantiche. Illuminanti alcune opere che saranno esposte a Milano: Projet pour un monument à Leonardo da Vinci (1957), Danseur sous le ciel (1922), Oedipus Rex (1922), Pietà (1923), The Forest (1927-1928), Une oreille prêtée (1935), L’ange du foyer (1937) e The Antipope (1941).
La medesima tensione plastica è confermata dalla scelta di far convivere, in tanti casi, le soluzioni pittoriche con alcuni prelievi oggettuali, che donano una composta tridimensionalità alle iconografie di Ernst, tra protuberanze, tentacoli, antenne e protesi. Eppure, la conquista di questa consistenza è sempre illusoria. Perché si può andare dall’informe alla forma, ma anche dalla forma all’informe. Non c’è corporeità, per Ernst, che non sia «agita» da una matrice primaria e archetipica.
È qui il senso della strategia dell’oscillazione messa in atto da questo sciamano dell’arte. Passare dal gassoso al monumentale, e viceversa. Mostrare la realtà spaesandola. Esibire il potere del meraviglioso in un mondo ormai disincantato. Ritrarre un sistema fantastico, ma privo di fantasmi. Concepire il surreale come proiezione ortogonale del visibile. Sovvertire radicalmente il regno delle immagini, spingendole verso contrade dove non sono mai state. Infine, sollecitare la visione e assistere al processo di invenzione mentre si sta svolgendo, per cogliere «il funzionamento reale del pensiero» (secondo le parole di André Breton).
Dotato di un folgorante talento metamorfico, Ernst ha un metodo infallibile. Assume una cosa riconoscibile e la rende altra da sé. La mette fuori gioco, ne massacra il significato, la fa morire e rinascere da se stessa, per lasciarne affiorare il volto ignoto. Egli, ha finemente osservato Giuseppe Montesano, «blocca ogni dialettica della sintesi e rende conto del potere di resistenza del particolare, che è sempre unico e inimitabile di fronte all’universale che è sempre comune». In questo modo costringe il pensiero a inabissarsi, a dimenticare le sue ritualità, a riordinare il proprio alfabeto.
Si sfoglino La donna 100 teste, Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà, i tre anti-romanzi composti da Ernst tra il 1929 e il 1934 (radunati nel 2007 da Montesano in un unico volume intitolato Una settimana di bontà, Adelphi): collage di illustrazioni ritagliate da feuilleton e da riviste popolari dell’Ottocento, accompagnate da didascalie ispirate al cinema muto. Sullo sfondo, una Parigi apocalittica, costellata di crolli e di catastrofi. Si tratta di un violento attacco contro ogni forma di racconto ordinato, contro ogni logica rappresentativa tradizionale. Un implicito elogio del fuori-controllo. Come un monumento all’arte dell’oscillazione. Un altare innalzato alla dea di cui Ernst si fa vate: Perturbazione. Divinità «più leggera dell’atmosfera, possente e isolata», che si trasforma in sirena omerica. «Le sirene cantano quando la ragione si addormenta».
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