«Il 7 novembre 2016 il medico ha previsto per me una diagnosi infausta: un anno di vita». Comincia così Tiresia contro Edipo, che ha come sottotitolo Vite di un intellettuale disorganico. Il filosofo Mario Perniola, settantacinquenne, scopre di avere un cancro al pancreas. Il tempo che gli resta da vivere lo impegna nel risolvere alcune «faccende pratiche», come la sopravvivenza della rivista che ha fondato, Àgalma. E, soprattutto, si butta a scrivere questo libro, da novembre 2016 a luglio 2017 (morirà il 9 gennaio 2018). Anche se è piuttosto corposo, vale la pena di leggerlo: è un benefico esempio controcorrente, perché offre un intreccio inestricabile di esperienza e teoria. Molti filosofi contemporanei le tengono separate, occultano scrupolosamente le occasioni esistenziali che hanno suscitato i loro concetti. È per questo che ho proposto a Domani una serie di articoli sulle eccezioni, quei rari libri filosofici autobiografici di oggi che fanno interagire il pensiero e la vita.
LE IDEE E LE AMANTI
Quando parla degli altri, Perniola ci mette in guardia in maniera dai tornaconti personali nascosti dietro i conflitti intellettuali: «nel corso della mia vita vi sono state moltissime occasioni in cui ho riscontrato questo perverso modo di condurre le battaglie teoriche dove dietro le divergenze teoriche si nascondono i risentimenti, i rancori, le rivalità e le frustrazioni personali, veri motori di conflitti insensati e anche ridicoli». Lo dice in maniera un po’ generica, e quindi poco dirompente. Ma a sé stesso non fa sconti; racconta senza reticenze la giunzione fra vita e teoria. Ecco alcuni esempi:
1. si chiede se «la teoria del primato delle copie sugli originali, che attraversa tanti miei libri filosofici» non provenga dal fatto che «sentivo che mio nonno amava me solo come copia di suo figlio»;
2. l’ideazione del suo libro più famoso deriva dal rapporto con due giovani donne: «Alle origini de Il sex appeal dell’inorganico sta Anski, una ragazza che ho conosciuto quando avevo 23 anni ad Amsterdam, con cui sono stato una decina di giorni senza riuscire a sapere nulla di lei. (…) Questo silenzio era accompagnato da una grande libertà sessuale anche in pratiche di cui fino ad allora non avevo esperienza per rispetto nei confronti del sesso femminile e perché mi sembravano umilianti e degradanti». Venticinque anni dopo, Anski gli fa conoscere un’altra ragazza, fiamminga come lei, Santa, l’altra «Musa», come la definisce Perniola, delle sue teorie sulla sessualità inorganica. In lei si fondono masochismo, psicosi, misticismo e spregiudicatezza. Ha un carattere imprevedibile, quasi bipolare. Ecco il suo ritratto psicologico: «Santa passava rapidamente dalla presunzione più tracotante alla più abietta prostrazione. Provocava in me un sentire tumultuoso: ora una dea, ora una schiava. Ma quando era una dea, poteva improvvisamente esplodere in un pianto irrefrenabile; quando era una schiava, c’era ancora una sfida con sé stessa, come riuscire a far uscire lo sperma in bocca solo con il movimento della lingua e delle labbra senza mani».
«Mi ricorda qualcosa», mi sono detto leggendo queste frasi; richiamano per l’appunto alcuni passaggi di Il sex appeal dell’inorganico (1994): «Leggere nello sguardo vitreo e opaco della vostra amante che vi sta succhiando il membro la dimostrazione fisica e tutta dispiegata di quel distacco dalle passioni propugnato dagli antichi filosofi scettici e stoici, costituisce un’esperienza da cui risulta quasi impossibile separarsi».
In Tiresia contro Edipo, Santa è una donna «capace di gesti improvvisi e trasgressivi»; a Fiumicino, nell’aeroporto, nota una gomma da masticare per terra, la prende e se la mette in bocca; preme «per scopare all’aperto»: in un fosso, in un cimitero di campagna, sulla terrazza del condominio di Perniola, nel bosco di Nemi; gli succhia il pene mentre lui guida l’auto; in pedalò sul lago di Albano si spoglia nuda e sventola il costume verso la villa papale di Castelgandolfo; in un lussuoso hotel del centro di Milano vuole fare l’amore durante una mestruazione abbondante, sporcando lenzuolo e materasso: lei e Perniola scappano dall’hotel, e pochi minuti dopo, in piazza Duomo, lui le fa una foto: quella mattina «tutto era color dell’oro, anche la sua pelliccia, sicché il duomo, la pelliccia e lei erano una cosa sola (…) vibrava di una estrema energia psichica, creando una specie di meccanica vivente enormemente più intensa della vita vera». Perniola lo dice chiaramente: «Credo che in quel giorno e in quella fotografia sia nato il germe del libro che scrissi l’anno dopo: Il sex appeal dell’inorganico». E aggiunge che in seguito fece una serie di conferenze dedicate al “Bello estremo”, che presupponevano, senza dichiararlo, l’essersi immerso nel sangue mestruale di Santa.
3. Anni dopo viene contattato da una ragazza norvegese («come al solito, non ero io che ero andato a cercarla, ma lei era arrivata attratta dai miei scritti»). Questa ragazza si chiama Angelo, ha un progetto: vuole riuscire a vivere senza elettricità, senza soldi, senza riscaldamento, senza acquedotto, in una plaga selvaggia della Norvegia, rimettendo in piedi una casetta paterna, funestata dai topi. Perniola la incoraggia in ogni modo, e si spende perché il suo progetto esistenziale venga considerato qualcosa di più di uno stile di vita radicale, e cioè una vera opera d’arte. Parla di lei sui giornali, e arriva a scrivere un intero libro, L’arte espansa, per fare sì che anche lei venga annoverata fra gli artisti irregolari, nella categoria della cosiddetta Outsider art. Anche in questo caso lo confessa apertamente: scrivendo L’arte espansa «il mio intento era quello di inserire l’attività di Angelo in questa categoria». Scoprire queste motivazioni, secondo me, non diminuisce il valore di quel piccolo, prezioso saggio sull’arte non istituzionale. Ad ogni modo, l’operazione non gli riesce: «non ero riuscito a trasformarla in un’artista». Lui ha 72 anni, lei 29. È la sua ultima relazione.
PROFESSORI IN VACANZA
Il libro è trascinante, movimentato, tocca tantissimi argomenti; qualcuno si trasforma in ipotesi sulle cause della sua malattia. La più ricorrente è che il suo tumore abbia a che fare con l’essere rimasto solo, non avendo avuto una donna al fianco negli ultimi tre anni. La sua vita sentimentale e sensuale è stata ricca; di conseguenza, Perniola non si capacita di non essere riuscito a trovare una compagna a 72 anni. È toccante il candore con cui dà per scontato che un uomo ormai vecchio possa procurarsi nuovi amori; forse deriva dalla facilità con cui, nella sua carriera di accademico di successo, viaggiando in tutto il mondo per convegni e incarichi, ha potuto accoppiarsi a studiose e studentesse; anzi, è stato cercato da loro, giovani donne di tutte le nazionalità: «jeunes-filles, girls, ragazze, chicas, moças, mädchen, meisjes, kjærester».
Tiresia contro Edipo è una lettura magnifica. Anche con i suoi difetti, proprio per i suoi difetti, questo libro è un capolavoro: il suo carattere ribollente lo rende autentico, disperato, straziante. Non si deve pensare che sia un brogliaccio informe, anche se l’autore mette le mani avanti: «questo testo è scritto così male!» Non è vero. Al contrario: Perniola è lucidissimo e, sebbene abbia poco tempo, scrive in maniera elegante. Ripercorre la sua vita a partire dai viaggi: «questo mio libro comincia evocando i luoghi in cui sono stato, non le persone, che vengono dopo, e solo in connessione con i luoghi con gli eventi»; fa ritratti di studiosi e amanti, disegna utili profili intellettuali (Guy Debord e molti altri), riassume libri, teorie filosofiche ed estetiche. La ricostruzione del suo percorso di pensiero e di vita è precisa, appassionante, e tra l’altro fornisce una miriade di intuizioni e sintesi teoriche.
Sono molto belle le riflessioni che ricava dalle sue incursioni in Giappone e in America latina. Ma tutta la sua esistenza è una scorribanda planetaria; Perniola ha fatto parte di quella casta di accademici di successo invitati ovunque nel mondo, si è goduto la vita offertagli dal sistema universitario, pur considerandosi «anti-consumista e pauperista». Lui stesso ammette che «i convegni servono a riempire gli alberghi durante la bassa stagione», e riconosce di avere seguìto, con i suoi spostamenti continui, «la regola degli intellettuali postmoderni del “mordi e fuggi” per fare curriculum, aumentare rapidamente il proprio capitale socio-culturale ed eventualmente rimorchiare qualche ragazza o ragazzo».
IL TABÙ DELL’IO
«Perché ora con l’approssimarsi della morte sento il bisogno di raccontare la sorgente da cui è nato il mio lavoro?» Quella sorgente sono gli avvenimenti personali. La notizia di avere poco tempo da vivere spinge Perniola a raccontare di sé, superando la sua avversione per l’io, per il discorso egologico, per l’indagine autobiografica. È come se si sbloccasse un tabù. Mi ha impressionato che Perniola abbia sentito il bisogno di giustificare questa mossa, prima di lanciarsi nella sua autobiografia.
L’insofferenza per l’io si è tradotta in una retorica pronominale. Ecco come la descrive: «Ora parlo in prima persona, mentre altrove ho adoperato la seconda persona plurale, cercando di essere il più impersonale possibile. Ma questo è possibile perché è comparsa una vecchissima signora che conosco da sempre, Madama morte, a consentirmi questa eccezione. In effetti penso che soltanto ai morituri sia consentito scrivere: “io”».
Come si fa a dare forma a un discorso che valga sempre e comunque? La via filosofica per produrre diciture universali è quella di affermare qualcosa che non dipenda dalla condizione di chi sta parlando. In che modo? Staccando da sé le proprie parole con qualche procedura di spersonalizzazione. Tra l’altro, così si appare perfino più umili, perché non ci si mette mai in mostra. A me sembra che dichiarare il proprio punto di enunciazione (il proprio punto di vista discorsivo) sia più onesto che far finta di esprimere discorsi senza soggetto, i quali, a ben vedere, sono molto superbi, perché pretendono di essere assoluti, come se a parlare fosse il sapere in persona.
Perniola sa di avere pochi mesi di vita davanti; si spalancano le paratie che fino a quel momento teneva sigillate: la possibilità di dire io e la voglia di essere sincero. Di fronte a «Madama morte», assume quello che chiamerei un pensiero agonico; nel triplo significato di angosciato, combattivo e terminale. Nella cupa imminenza della fine, combatte contro il sé stesso che è stato, e contro il galateo filosofico che gli imponeva di non parlare di sé.
MEGLIO UN DIARIO?
Tiresia contro Edipo è un libro capitale, sia per la sua onestà, sia per la consapevolezza guadagnata in una fase finale della vita, che mette in discussione tutto il pensiero e il modo di impostare l’indagine filosofica. Perniola lo esprime in maniera chiarissima: «Chissà se invece di dedicare quasi tutta la mia vita alla trasposizione filosofica delle esperienze, avessi continuato sulla strada del protocollo che racconta le cose nel momento in cui avvengono! Tuttavia la mia originalità consiste proprio in questo va e vieni tra vita e concetti filosofici, tra eventi privati e accadimenti pubblici». Alla fine del suo percorso, si chiede se non sarebbe stato più sensato essere l’autore di un diario filosofico pubblico, più che accumulare trattati e saggi impersonali.
Sarebbe un errore ricavarne che la verità delle cose risieda soltanto nei retroscena, smontando le teorie con i pettegolezzi. Il valore delle idee di Perniola non dipende dai suoi scopi e dai tornaconti personali. Ma non è più filosofico conoscere anche le occasioni esistenziali da cui quelle idee sono scaturite? È lo stesso Perniola a dirlo, quando descrive la sua ultima mossa, che va in direzione contraria rispetto a quella di tutti i suoi libri precedenti: «Ho trasformato l’esperienza in un concetto, in una teoria; l’ho inserita in una trama teorica; ne ho fatto una filosofia. Ora, lettore, se i miei libri ti interessano, devi fare il movimento contrario: non capirai mai la teoria, se non rifletti sull’esperienza da cui è nata».