Giovanni Losavio
Le voci risentite, per la verità non numerose (Montanari, Settis, Carpentieri, Severini), che si sono alzate, quando ancora se ne discuteva in parlamento, su questa manomissione dell’art.9, hanno innanzitutto colto il profilo di assoluta novità della proposta revisione che attenta alla integrità del compatto e chiuso tessuto dei principi fondamentali fino ad oggi rimasto intoccato nella settantennale vicenda delle corrive revisioni della costituzione, raramente benefiche. Oggi si è creduto di poterlo e doverlo fare come aggiornamento dovuto alla maturata cultura dell’ambiente, solenne avvio della transizione ecologica. Un precedente molto pericoloso che apre il varco a nuove riscritture con analoghi intendimenti. E la questione pregiudiziale della ammissibilità di mettere a revisione il testo di un articolo dei primi dodici dedicati ai selezionatissimi principi fondamentali è rimasta implicita nello sviluppo delle ragioni per cui la riforma è inutile e sicuramente dannosa. Insuperabili (di recente ci si è provato invano Gianfranco Amendola) gli argomenti sul merito di quell’indebito inserto, il terzo comma, che stravolge il senso del testo originario dove il secondo comma è legato funzionalmente al primo (promuove lo sviluppo della cultura, quindi tutela patrimonio e paesaggio), una sintassi che non lascia spazio ad alcuna integrazione con la letterale enunciazione di un ulteriore principio in un comma aggiuntivo. Sicché quel terzo comma è messo lì per riformulare integralmente l’articolo 9 e modificare il senso del secondo comma come lo abbiamo ricevuto nella consolidata lettura che ne ha dato la corte costituzionale con numerose pronunce.
Lo ha con franchezza spiegato nella intervista che il 6 settembre ha reso a Repubblica il loquace presidente della corte costituzionale (alla vigilia della conclusione del suo mandato di giudice) che riconosce nella riforma il necessario superamento della identificazione tra ambiente e paesaggio e della sua conseguenza precisa. “Oggetto della tutela costituzionale era soprattutto il bello, l’equilibrio perfetto tra la natura e l’opera dell’uomo”. Sono queste le pressoché testuali espressioni della legge 1497 del 1939 sulle bellezze naturali, inadeguate a rendere la nozione del paesaggio dell’art.9 (che non si è limitato a costituzionalizzare la tutela di quella legge nella quale invano ricerchiamo lo stesso lemma paesaggio): la nozione del paesaggio come l’aveva altrimenti saputa intendere la corte costituzionale. Dissenting opinion quella del suo presidente. Insomma, dice lui, il testo originario dell’art.9 deve essere riformato perché esprime una “accezione di ambiente molto diversa da come oggi la intendiamo, l’atmosfera in cui la vita è possibile, un insieme di equilibri da cui dipende la nostra salute e la stessa sopravvivenza della specie. E l’ambiente in questa accezione è entrato [con la riforma, deve intendersi] nella costituzione accanto alla tutela del paesaggio”. La riforma rompe dunque intenzionalmente la unità paesaggio/ambiente (inscindibile endiadi) e rende inesorabile il conflitto. Che Amato confessa di aver vissuto personalmente nelle colline toscane, risolto con le pale eoliche messe a sfondo dei cipressi che a Bolgheri. Anche lì ha ceduto il paesaggio, non poteva che finire così.
Il terzo comma dell’art.9 non aggiunge dunque un ulteriore principio a quelli fondativi della repubblica, che rimarrebbero in ipotesi non incisi, rispettati nella loro pregnanza. Al contrario, lo ha colto infine Amato, la riforma riconduce a una diversa dimensione prescrittiva il principio della tutela del paesaggio come originariamente era stato dettato dalla assemblea costituente nel secondo comma dell’art.9 e come è stato inteso nella attenta cognizione della corte costituzionale. Sorprende che il suo presidente ne svaluti la complessa elaborazione, non solo, ma insieme neghi la attitudine del testo costituzionale (saputo intendere dalla moderna sensibilità dell’interprete) a corrispondere alla esigenza di adeguamento alla maturata coscienza dei valori.
A far oggetto di revisione l’art.9 ci aveva già provato, come è ben noto, la XIV legislatura per portare la tutela dell’ambiente dentro i principi fondamentali, proponendo dapprima l’inserto della espressione “ambiente naturale” nel secondo comma, primo elemento del plurimo complemento, ambiente naturale, paesaggio, patrimonio. Anche allora Italia Nostra motivò le ragioni che si oppongono alla manomissione del più bell’articolo della costituzione come lo aveva accreditato, si ricorderà, il presidente Ciampi e a lui l’associazione fece allora riservatamente giungere le osservazioni che aveva illustrato nella audizione della commissione del Senato. Facendo affidamento che il presidente, pur attenendosi alla sua regola di non interferire nei lavori parlamentari di formazione delle leggi, trovasse tuttavia il modo e la occasione di esprimere il proprio convincimento su quella iniziativa revisionista. E Ciampi la trovò nel suo viaggio negli Stati Uniti del novembre del 2003, e nel discorso che tenne alla National Gallery di Washington ritornò sul suo amato art.9, sottolineando la stretta interdipendenza dei due commi, come valore intoccabile disse così (riprendendo pressoché alla lettera un passaggio delle ricevute osservazioni di Italia Nostra). Fu una raccomandazione indiretta, subito registrata come tale dal relatore al progetto di legge alla camera dei deputati e l’assemblea ritenne di doverne tener conto, ma se la cavò lasciando integro il secondo comma e affidando a un terzo comma il principio integrativo autonomo della tutela del paesaggio, con la espressione che sarà quasi testualmente ripresa nel testo di questa revisione 2022. Ci sarebbe stato allora tutto il tempo per concludere entro la stessa legislatura (dal 2003 – prima lettura – al 2006) il pur complicato procedimento di revisione, che non venne invece alla sua fine e credo che quella autorevole raccomandazione non sia stata ininfluente sul tacito insabbiamento, come si dice, della proposta.
L’eccezione di inammissibilità, pregiudiziale alla considerazione nel merito della riforma che modifica il principio della tutela del paesaggio, apre alla prospettiva verso il sindacato di legittimità della Corte Costituzionale sulla legge di revisione approvata definitivamente dal Parlamento nel febbraio scorso e trionfalmente dalla Camera dei Deputati in conclusiva lettura con un solo voto contrario. Mai la corte costituzionale (con la dottrina unanime fin dalle primissime esegesi, Mortati) ha dubitato che il proprio sindacato di legittimità comprendesse le leggi costituzionali e quelle stesse di revisione costituzionale (anche se mi pare che mai si sia dovuta misurare con la contestazione/sospetto di legittimità di una specifica legge di revisione costituzionale) soggette tutte, leggi costituzionali e di revisione, al rispetto dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” ai quali implicitamente si estende la limitazione posta al potere di revisione dall’art.139 per la “forma repubblicana”: che necessariamente si sostanzia negli essenziali e originali connotati disegnati e storicamente definiti dalla assemblea costituente nel solenne testo introduttivo dei principi fondamentali. Su quei principi è nata e si è costituta la repubblica voluta nel referendum del giugno 1946 e non sarebbero fondamentali se fossero oggetto di possibile revisione, sono funzionalmente immutabili, insuscettibili di essere riformati, perché ne sarebbe alterata la stessa forma repubblicana come storicamente concepita dai costituenti. Sono dettati per sempre, eis aei, perché la Repubblica è stata fondata così e riscrivere anche uno soltanto di quei principi è un attentato al loro compito e può dirsi perfino, in una considerazione che non sia quella propria della disciplina giuridica, che così si consumi un falso storico. I principi fondamentali differiscono quindi funzionalmente rispetto alle consecutive disposizioni del testo costituzionale, suscettibili esse di adeguamento al nuovo e di formare oggetto di riconsiderazione nei modi della revisione. Che è vincolata in ogni caso al rispetto dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” espressi innanzitutto, ma non solo, negli stessi testuali principi fondamentali. Per la più esplicita motivazione del convincimento della Corte costituzionale è generalmente richiamata la sentenza (n.1146 del 1988) data sul dispositivo di uno degli statuti speciali della Regione Trentino-Alto Adige che hanno valore di legge costituzionale. Rigettando la eccezione di inammissibilità sollevata dalla avvocatura dello stato, la corte ci dice: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale quale la forma repubblicana (art.139), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati tra quelli non assoggettabili a procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la costituzione italiana. Se così non fosse, conclude la Corte, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle norme di più elevato valore” (la questione di legittimità affrontata in quella sentenza era posta in rapporto al principio di eguaglianza dell’art.3). Digiuno come io sono dei dedicati studi disciplinari, commetto l’azzardo di identificare, impiegando i comuni strumenti critici di lettura di un testo di scrittura, negli intoccabili principi supremi quelli che la costituzione esplicitamente riconosce come fondamentali e pone nella introduzione delle due consecutive parti dedicate ai diritti e ai doveri dei cittadini e all’ordinamento della repubblica. Sarebbero vanamente fondamentali se offrissero alla pretesa di revisione il medesimo grado di resistenza di ogni altra disposizione costituzionale. So bene che la questione è controversa e che maggioritario tra gli studiosi dedicati è il rifiuto della identificazione (perché espressione si dice di cieco automatismo) dei supremi principi nei testuali principi fondamentali, un rifiuto che non è però motivato sul riscontro critico dei contenuti di ogni specifico articolo dei primi dodici, né dirimente a me pare l’unico argomento, addotto a campione si direbbe, fondato sulla considerazione dell’art.12 che ha mero contenuto descrittivo della bandiera della repubblica come tricolore e non enuncia quindi a rigore alcun principio (ma c’è chi invece anche all’art. 12 non nega la dignità di supremo principio). Certo è che non abbiamo letto alcuna esplicita motivata negazione della attitudine del dettato dell’art.9 (come letto dalla corte costituzionale) a integrare in sé un supremo principio, e pure è certo (ce lo ha spiegato il presidente uscente della Corte costituzionale) che il terzo comma è stato messo lì dalla revisione per contrarre il contenuto prescrittivo della tutela del paesaggio come la aveva voluta il costituente.
Il dibattito parlamentare che ha condotto ai quattro voti non si può francamente dire che non sia stato ampiamente partecipato, essendosi anche giovato della consultazione di costituzionalisti di gran rango chiamati in audizione, consultazione unanimemente data a sostegno della riforma nel merito, anche con argomenti di tutto rispetto (come quelli di Gustavo Azzariti – ci ritornerò in conclusione tra breve – che ha scritto e pubblicato nel 2016 pagine molto belle contro il revisionismo costituzionale). Ma la lettura degli atti parlamentari (frettolosa però la mia) ci dice che la discussione non si è fermata affatto a considerare l’assoluta novità della iniziativa di revisione diretta, come mai fino ad oggi, su un principio fondamentale, per riflettere sul problema della relativa ammissibilità e dare in ipotesi una motivata risposta affermativa. E neppure dai servizi studi di Camera e Senato il tema è affrontato. Speciale interesse ha il rapporto dell’Ufficio del Senato che dà diffusamente conto della lettura espansiva della tutela del paesaggio costituzionalmente sancita dall’art.9, declinata dalla giurisprudenza costituzionale come tutela paesaggistico-ambientale e riprende le significative espressioni delle più recenti pronunce della Corte là dove (in particolare la sentenza n.179 del 2019) si fa riferimento al “processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”. Argomenti che a rigore avrebbero dunque dovuto convincere della inutilità della riforma del principio di tutela del paesaggio come oggi lo si deve intendere, idoneo a offrire esauriente protezione a tutti gli interessi ambientali, voluti invece fare oggetto di un autonomo principio inevitabilmente speso in funzione conflittuale, sicché dannosa la riforma che rompe la unità concettuale paesaggio/ambiente. Come ineccepibilmente avevano dimostrato nel loro tempestivo saggio Carpentieri e Severini. Mi ero riservato di ritornare brevissimamente in conclusione sul parere di incondizionata adesione alla proposta motivato da Azzariti, lo studioso contro il revisionismo costituzionale, che qui riconosce una riforma nel segno della attuazione costituzionale, con efficacia innovativa, non meramente ricognitiva della evoluzione della legislazione ordinaria, che introduce un nuovo principio di tutela dell’ambiente fondato sulla impegnativa idea di sviluppo ecosostenibile (non più basato sulla priorità economico-finanziaria o genericamente postulato sostenibile); la collocazione del compito di tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali porta all’emancipazione del bene ambientale dalla visione esclusivamente proprietaria e antropocentrica, legata cioè all’uso dell’ambiente utile al singolo o alla collettività per integrare questa visione in quella oggettiva del bene inteso come bene comune, da preservare cioè come bene in sé e per assicurare l’ecosistema all’attuale generazione e a quelle future (in una dimensione di doverosità legata alla solidarietà intergenerazionale). Una riforma necessaria che valga – ecco il punto – a impedire l’elusione del diritto all’ambiente, dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria di legittimità riconosciuto in via di principio come valore primario e assoluto, ma attraverso l’impiego improprio della tecnica di bilanciamento, esposto alla soccombenza nel confronto con ogni altro diritto costituzionalmente protetto, come il diritto di impresa e quello del lavoro. Così è in pratica avvenuto nel caso della Ilva di Taranto, avendo la Corte costituzionale – denegata giustizia costituzionale, osserva Azzariti – rimesso il bilanciamento al legislatore ordinario. Si tratta insomma dell”attesa riforma capace di conferire la forza che spetta nell’ordine costituzionale al valore dell’ambiente nel bilanciamento con ogni altro valore pur costituzionalmente protetto. Una legge di riforma che è dunque nel segno, come si diceva, della attuazione costituzionale. Nello schema costruito da Azzariti rimane del tutto assente, come si vede, la considerazione del valore-paesaggio con il quale l’ambiente, riconosciuto che sia oggetto di autonoma tutela, deve misurarsi e entrare nel bilanciamento; ma assente innanzitutto la considerazione di quello sviluppo della giurisprudenza della corte costituzionale che aveva saputo fondare sul principio dell’art.9 anche in rapporto all’art.32 la esauriente tutela dell’ambiente. E se nel caso dell’Ilva la tutela dell’ambiente è rimasta soccombente non fu in ragione di una presunta debolezza del principio, ma, come riconosce lo stesso Azzariti, per essersi la Corte sottratta con quella decisione al suo compito.
Insomma, e per concludere in fretta, l’attentato all’integrità del principio fondamentale (e supremo dell’ordinamento costituzionale) dell’art.9 nulla aggiunge alla efficacia della tutela dell’ambiente, ma gravemente attenua il vigore della protezione riconosciuta al paesaggio. E rimango convinto che si tratti di questione che possa e debba essere portata al sindacato della Corte Costituzionale.