Le parole esatte del disorientamento
13 Ottobre 2022Les débuts « sans enthousiasme » du Conseil national de la refondation sur l’éducation
13 Ottobre 2022di Paolo Di Paolo
Il romanzo di Hermann Hesse usciva in Germania nel 1922. E Robinson dedica la copertina al talismano di intere generazioni
I libri-talismano non esistono più. Piccoli feticci lampeggianti nelle tasche e sui comodini accanto al letto, segnano le epoche e le scavalcano, passando di generazione in generazione. Talvolta è più decisivo possederli che leggerli, emanano una loro luce speciale a cui basta esporsi. Così è stato a lungo per Siddhartha, pubblicato per la prima volta un secolo fa. Diverso, eccentrico rispetto ai grandi romanzi modernisti che, nel cuore dei ruggenti anni Venti, mostravano altre possibilità dello stile e perciò del pensiero, cercava altrove – lontano dalla vecchia Europa – tutte le domande e tutte le risposte. L’aria dell’India Hermann Hesse l’aveva respirata in famiglia: mamma e papà, rigidamente vocati alle missioni religiose, potevano raccontare le loro esperienze in un mondo dai clima e colori tanto diversi da quelli di Basilea.
Poco più che trentenne, Hesse cerca la sua personale via all’Oriente, con un salto che da Schopenhauer, Nietzsche e Bergson lo porta ai piedi del Buddha. Nella sua schiva, appartata esistenza svizzera, fa brillare e fruttare ciò che ha sentito, compreso e immaginato negli studi e nelle meditazioni più che nel quasi fallimentare pellegrinaggio indiano. A ogni modo, dall’India passa il suo tentativo radicale di scuotere l’affanno psicologico, il torpore depressivo che lo ingabbia. Siddhartha, il “Buddha potenziale”, e l’amico Govinda – un po’ come Narciso e Boccadoro nel famoso romanzo del ’30 – si incamminano sulla strada (impervia) della saggezza. Errano, come si diceva una volta; sono uomini in viaggio, vagabondi in attesa di illuminazione. Come gli appassionati lettori che Hesse non ha fatto in tempo a incontrare, i giovani contestatori che riscoprono Siddhartha nella sua seconda vita, quella anni Sessanta-Settanta. Un fenomenale bestseller tardivo e però in sincrono con le aspirazioni e i sogni di una generazione che al momento della prima edizione non era nemmeno nata. Ecco il talismano, il libro iniziatico, quasi sacro, comunque di culto, che accompagna gli hippy lontano dal consumismo e verso il Gange.
Pace interiore e nirvana, libertà del cuore: il sogno di un’India “tutta metafisica e contemplativa, così diversa dall’India di Kipling, tutta concreta, affaccendata, brulicante”, scriveva Massimo Mila, primo e unico traduttore italiano, la cui versione, nel passaggio da Frassinelli (1945) ad Adelphi (1973), diventa letteralmente sciamanica. D’altra parte Hesse stesso conobbe l’indifferenza: a Romain Rolland raccontò per lettera nel ’23 lo sconforto vissuto di fronte al fatto che “in occasione di nessun altro libro i miei amici più stretti mi hanno ignorato come adesso… non uno che si sia dato la pena di accusarne ricevuta, anche solo con due righe”. E lamenta il “rispettoso imbarazzo” dei giornali e della critica. Non era ancora il momento di Siddhartha. Quello in cui il libro, anche in Italia, “dilagò”, per usare l’espressione di Roberto Calasso, coincide con l’uscita nella Piccola Biblioteca, formato piccolo e iconica tinta pastello, trent’anni dopo la prima apparizione, finalmente in sintonia con la ricerca spirituale di ragazze e ragazzi che, in qualche caso, azzardarono perfino a usare Siddhartha per battezzare la prole. Il quattordicenne protagonista del film di Francesca Archibugi L’albero delle pere si chiama così, e alle spalle sembra avere solo adulti falliti nella loro esplorazione del senso della vita.
La fortuna pop avrebbe ripagato forse Hesse, che pure lo scrisse in una stagione di notevole interesse per l’Oriente: ancora Calasso sottolineava l’importanza della pubblicazione nel 1920 in Germania di una “scelta di scritti buddhisti, curata da Dahlke. È l’irruzione dell’Oriente in un’editoria alta ma non accademica. La stessa formula di Siddhartha, che è del ’22”. All’autore, benché non pienamente soddisfatto, sembrò di “avervi esposto un certo ideale di vita meditativa ispirato all’India: qualcosa”, scriveva due mesi dopo la conclusione della stesura – di nuovo per il nostro tempo”. Troppo nuovo o troppo antico? “Riassume di nuovo alcunché d’assai remoto”, insiste nell’agosto di quello stesso anno, contraddicendosi solo in apparenza. In fondo i suoi pellegrini, i viandanti, gli anarchici randagi, come li ha definiti Claudio Magris, offrono una poesia sempre un po’ sfasata rispetto al rigore dei calendari, “la poesia del vagabondare, la poesia della strada e delle stagioni, del lungo cammino e della breve pausa”. L’ossessione della ricerca del Sé non è databile, né deperibile; si rinnova a ogni giovinezza: in quei giorni che “puzzano di lunedì”, quando ti pare che gli adulti – come osserva Hesse sul punto di scrivere Siddhartha – si comportano come semidei, fingendo che il mondo sia perfetto.