A che punto siamo nella lotta all’inflazione ? La risposta non è scontata. A gennaio l’inflazione armonizzata nell’Eurozona era del 2,8 per cento, superiore all’obiettivo del 2 per cento della Bce.
La politica monetaria è unica ma la dinamica dei prezzi varia parecchio nei vari paesi perché crisi energetica, Covid, disfunzioni nelle filiere di produzione e nella logistica, hanno avuto impatti molto differenti sulle loro economie e quindi sulla dinamica di costi e prezzi. Mentre a gennaio l’inflazione era dello 0,9 e 1,5 per cento, rispettivamente, in Italia e Belgio, al di sotto dell’obiettivo della Bce, in Francia e Spagna era del 3,4 e 3,5 per cento.
L’inflazione è data dalla variazione percentuale tra il livello dell’indice dei prezzi in un mese, rispetto a quello dello stesso mese dell’anno precedente: il dato di gennaio pertanto non fornisce alcuna indicazione su quale sia stata la dinamica dei prezzi successiva al gennaio del 2023. Se per esempio si calcola la crescita annualizzata dei prezzi da giugno 2023 a gennaio 2024, l’inflazione così misurata è stata di appena dello 0,18 per cento; e addirittura deflazione negli ultimi tre mesi.
L’inflazione calcolata su periodi più brevi dell’anno è distorta dalla stagionalità, ma la sua rapida discesa verso il 2 per cento è un dato ormai acclarato, specie tenuto conto che si partiva da un picco di oltre il 10 per cento verso fine 2022. Un trend che è rafforzato dalle stime sull’inflazione attesa nel lungo periodo che sono ben ancorate al 2 per cento.
Perché dunque la Bce mantiene i tassi di interesse elevati, sostenendo che la lotta all’inflazione non è ancora vinta? La principale argomentazione è che l’inflazione “core” (depurata dei costi dell’energia e dei beni alimentari in quanto particolarmente volatili) è quella rilevante per valutare la dinamica dei prezzi: e a gennaio, seppur in discesa, era al 3,6 per cento, quasi il doppio dell’obiettivo della Bce.
A sua volta l’inflazione «core» è spiegata quasi interamente dalla crescita dei prezzi nel settore dei servizi: la Bce calcola che quasi il 70 per cento dei prezzi dei servizi nel paniere dell’indice mostrava a gennaio una crescita superiore al 3 per cento. E i prezzi dei servizi dipendono in modo rilevante dal costo del lavoro, che sta crescendo più rapidamente di quanto la Bce ritenga coerente con il suo obiettivo di inflazione.
L’elevato livello dei tassi sarebbe dunque necessario a impedire che le imprese trasferiscano sui listini la maggior crescita salariale, innescando il cosiddetto «second round effect» (effetto indiretto). Di qui le ripetute dichiarazioni da parte della Bce che una discesa dei tassi è possibile solo dopo che anche il costo del lavoro avrà mostrato un chiaro rallentamento.
La riduzione dei tassi è quindi cosa certa; l’incertezza verte su quando comincerà, e quanto sarà rapida: oggi la maggioranza degli investitori scommette su un taglio complessivo di 100 punti base per fine anno, a cominciare da giugno.
IL RUOLO DEI TASSI
Il rischio è che la Bce tagli troppo poco, troppo tardi. Un rischio serio perché l’analisi sottostante le decisioni della Banca Centrale è poco convincente. Non è chiaro infatti quale ruolo abbiano avuto i tassi elevati nella rapida riduzione dell’inflazione: certamente hanno contribuito a rallentare la domanda aggregata, ma l’impatto maggiore è venuto da un aumento dell’offerta di beni e servizi, dalla risoluzione delle disfunzioni nelle filiere di produzione e nella logistica, nonché dal rapido superamento della crisi energetica.
Inoltre, anche secondo la Bce, la contrazione del credito è stata causata prevalentemente da una riduzione autonoma nella domanda di prestiti, piuttosto che un aumento del loro costo.
Se poi si va a vedere le componenti dei servizi che hanno mostrato i maggiori aumenti di prezzo a gennaio – educazione, servizi ospedalieri, ristorazione, costi per il mantenimento delle abitazioni, servizi idrici e fognari, assicurazioni, servizi per la cura personale – è difficile capire come l’elevato costo dei prestiti e dei mutui in banca possa calmierarne la dinamica; a meno di creare un forte e generalizzato rallentamento dell’economia. I tassi saranno pure una medicina efficace per combattere il virus dell’inflazione, ma rischiano di ammazzare il paziente.
Non convince neanche l’argomento dell’eccessiva crescita salariale. È ragionevole che i lavoratori cerchino di recuperare il potere di acquisto perduto: ma questo ha un impatto limitato nel tempo.
Perché inneschi una spirale salari-inflazione bisogna che le imprese vogliano e possano scaricare sui listini i maggiori i costi. È successo in diversi settori dopo il Covid, sfruttando l’impennata nella domanda a lungo repressa dalla pandemia, e resa possibile dalle politiche monetarie e fiscali ultra espansive.
Ma oggi la situazione è molto differente perché i tassi di interesse reali sono storicamente elevati e le politiche di bilancio hanno invertito il segno rendendo particolarmente difficile un aumento dei margini. Basta guardare alle stime delle società quotate nei vari settori: per esempio, ci si attende che il risultato operativo di quelle dei trasporti e della distribuzione, che avevano approfittato della fine del covid per aumentare i listini, si riduca, rispettivamente, dal 14 e 8 per cento del 2022, al 9 e 5 per cento per quest’anno; d’altro canto si prevede che siano i produttori di macchinari e di beni intermedi industriali ad aumentare i margini rispetto al 2022, settori dove i prezzi però crescono oggi al di sotto del 2 per cento, né appartengono ai servizi, al centro dell’analisi della Bce.
La Banca Centrale è stata colta di sorpresa dall’aumento dell’inflazione, mostrando così di non avere una valido modello per prevederla.
È pertanto ricorsa a un approccio «data dependent», ovvero basa le proprie decisioni non tanto sulla stima del futuro andamento dei prezzi, o sulle aspettative che abbiamo visto sono ben ancorate al 2 per cento, ma sui dati che man mano vengono resi disponibili; anche se è un po’ come guidare guardando nello specchietto retrovisore.
REAZIONE DELLA BCE
Questo approccio ha fatto sì che il mercato reagisse in modo eccessivo a ogni singolo dato economico, o dichiarazione, perché gli investitori cercano in questo modo di anticipare quella che sarà la reazione della Bce a quel dato. E vista la rapida discesa dell’inflazione nell’ultima parte del 2023 ha cominciato a scommettere su una riduzione dei tassi già a partire da aprile, e su 6 tagli da 0,25 fino a fine anno.
Anticipando i tagli, il rendimento del decennale tedesco è sceso dal 2,8 per cento di fine settembre 2023 a un minimo di 1,87 a inizio anno. In questo modo il mercato ha indirettamente allentato le condizioni di restrizione finanziaria volute dalla Bce.
Che pertanto ha reagito con una sfilza di dichiarazioni per convincere il mercato di quanto infondate fossero le sue aspettative: obiettivo raggiunto visto che il rendimento del decennale è risalito al 2,37 per cento; ma al costo di una volatilità nei tassi che è sempre un rischio per la stabilità dei mercati finanziari.
C’è un ultimo elemento che la Bce sembra trascurare. Molti ritengono che la deglobalizzazione, e il conseguente aumento delle barriere tariffarie, il costo della transizione ambientale, la demografia, i rischi geopolitici e l’aumento per le spese militari aumenteranno nel lungo periodo il livello strutturale dell’inflazione; non compensato da un aumento strutturale della produttività. Se così fosse, un obiettivo inflessibile del 2 per cento nella lotta all’inflazione potrebbe imporre dei costi di lungo periodo alla crescita economica.
Penso che il mercato abbia ragione nel dichiarare pressoché vinta la guerra all’inflazione e che la discesa dei tassi quest’anno sia cosa certa. Ma penso anche che la Bce rischi di aggravare il costo pagato per la vittoria nel tentativo di ricostruire la sua reputazione, ormai dissipata, di severo custode della stabilità dei prezzi.