Shruti Swamy, un’epica quotidiana e porosa
31 Gennaio 2023La Chiesa che perde l’Europa
31 Gennaio 2023
di Maurizio Ferraris
Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza. Un computer non si comporterà mai né come Cesare Pavese né come Dominique Strauss-Kahn. Questo non dipende dal fatto che siamo traboccanti di sentimenti preclusi, ad esempio, ad altri organismi: due cervi si sfidano esattamente come due bulli fuori da una birreria. Deriva dal fatto che abbiamo dei bisogni che ci fanno tendere verso qualcosa con una urgenza che nessuna macchina mai possiederà.
In questo senso, temere che una macchina possa prendere il potere, agitare lo spettro della intelligenza artificiale onnipotente, è soltanto rivelare una nativa mancanza di intelligenza naturale, quando non volersi lavare le mani dal sangue di cui sono sporche. Ciò che è comprensibile in Albert Speer, ministro degli armamenti del Terzo Reich che a Norimberga si difese invocando l’onnipotenza dell’apparato tecnico tedesco, è inspiegabile in Martin Heidegger, che ha rilanciato l’argomento, e nella turba di filosofi e non filosofi che lo hanno seguito. Una volta che si sia tolta di mezzo la fiaba del Golem nelle sue varianti contemporanee, conviene considerare due circostanze.
La prima. Oggi ci vien detto che ormai da decenni esistono macchine che possono svolgere delle operazioni caratteristiche della intelligenza umana meglio di quella intelligenza stessa. Sommessamente si vorrebbe ricordare che, da una parte, le intelligenze umane non sono tutte uguali (per esempio gli idiots savants hanno prestazioni degne dei computer), e che quando pure lo fossero nessun essere umano ha mai avuto le conoscenze contenute all’interno di una qualunque enciclopedia, sebbene al contempo nessuno, se sano di mente, ha mai pensato che una enciclopedia sappia di essere una enciclopedia o che un software per giocare a scacchi sa di giocare a scacchi, ed è contento se vince o frustrato se perde.
La seconda. Ora si parla di una macchina riflessiva che risponde a domande, risolve equazioni, riassume testi. Si tratta davvero di un passo in avanti? Per chi vuole copiare un compito o una tesi sì (ma oramai ci sono macchine che individuano eccellentemente i plagi), per chi vuol esercitare il compito fondamentale della intelligenza, ossia stabilire dei fini e deliberare coerentemente, no. Perché l’oracolo di ChatGTP è una via di mezzo tra le frasi che si trovano nei Baci Perugina e la linea politica di un oltranzista dell’ecumenismo disposto a rivendicare la necessità dell’uguaglianza ma anche della disuguaglianza, del comunismo ma anche del liberalismo, della fede, ma anche dell’ateismo.
La stima che possiamo affidare all’oracolo di San Francisco non è dunque certo né morale né intellettuale. Che giudizio avremmo avuto di Winston Churchill se il 4 giugno 1940 avesse detto: noi combatteremo sulle spiagge, ma anche non combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle colline, ma anche non combatteremo sulle colline, combatteremo sui campi di atterraggio, ma anche non combatteremo sui campi di atterraggio, non ci arrenderemo mai, ma anche ci arrenderemo sempre? Per inciso, la scelta più conforme alla razionalità politica ed economica era di arrendersi, ma per fortuna Churchill si è guardato bene dal seguirla. Le alternative eleganti ed equivalenti ricordano il dilemma dell’asino di Buridano, che muore di fame non sapendo quale mucchio mangiare. A parte che credo che, essendo un organismo, prima o poi si sia deciso, resta che se non lo avesse fatto sarebbe stato giustificato dalla circostanza di essere un asino, e non una sofisticata intelligenza artificiale.
Facciamo un passo indietro. Tra il 1885 e il 1886 La Vie Moderne pubblicò a puntate Ève future di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, che ci portava nei sotterranei dei laboratori di Edison a Menlo Park mostrandoci un automa con l’aspetto di fanciulla munito di un magnetofono interno che gli permetteva di conversare garbatamente. Ed Edison giustamente osserva che non c’è una sola frase che non sia stata già detta almeno una volta, e se ogni detto è un ridetto non c’è nessuna difficoltà nel rispondere a tono. Il problema, semmai, è un altro, e l’aveva visto bene William James che nel 1908 svolse un ragionamento di buon senso che si ha la deplorevole tendenza a dimenticare. Immaginate, scrive James, una fanciulla buona, affezionata, soccorrevole (si tratta evidentemente di una fanciulla di altri tempi) che però di colpo scopriamo essere un automa. Saremmo contenti dell’amore che ci porta? Potremmo chiamare amore il sentimento che ci offre? E a maggior ragione potremmo considerare intelligente quella fanciulla (dopo aver rinunciato a considerare intelligente il suo eventuale spasimante)? Sì, ma a condizione che siamo disposti a considerare intelligente una matita, un pezzo di carta, un abaco, un metro, un regolo calcolatore. E se non siamo disposti a concedere niente di tutto questo, allora ci si domanda perché mai gli educati componimenti di ChatGTP possano in qualche modo turbare i sonni dell’umanità prospettandole un prossimo crepuscolo di fronte all’età delle macchine.
La buona domanda secondo me, forse la domanda davvero intelligente, e non lo dico perché sono io a formularla, ma perché motiva coloro che fabbricano queste macchine, sta appunto nel chiedersi perché fabbricarle. Per filantropia? Per aiutare gli studenti a copiare, o per aiutare i professori zucconi a scrivere dei finti articoli scientifici? Neanche per idea: quello di cui hanno bisogno queste macchine è riuscire a capire l’infinita varietà, stupidità, genialità, spesso imprevedibilità della curiosità umana. Infatti, chi si preoccupa del nuovo arrivato sul mercato dell’intelligenza artificiale non è la ditta Bignami, ma Google, che vede insidiata la supremazia nell’essere il collettore delle domande dell’umanità.
Se la superiorità della domanda sulla risposta è una sciocchezza in filosofia, è invece una strepitosa fonte di reddito in informatica, perché è proprio dall’assurda e imprevedibile quantità di domande che gli umani rivolgono alle macchine che queste ultime possono capire che cos’è e come funziona quello strano misto di organismo e di meccanismi (tecniche, cultura, educazione e maleducazione, fame, sete, paura e desiderio) che è l’umano. Quale macchina potrebbe mai interrogarsi su quale sia l’attuale moglie di Al Bano? Ebbene molte query vertono su questo punto così come altre query vertono sul sapere come aumentare la propria potenza sessuale, o magari su quale sia la formula chimica di un qualche composto allucinogeno. Nessuna macchina si sognerebbe mai di fare domande del genere, così come nessuna macchina si sognerebbe mai di preoccuparsi del futuro, ossia nessuna macchina potrebbe autonomamente comportarsi in quella maniera teleologica, ossia orientata da un fine — alto o basso che sia — che caratterizza la forma di vita umana.
Cerchiamo di non passare per più stupidi di quello che siamo manifestando improbabili timori circa la presa del potere delle macchine, e proviamo ad essere un po’ più intelligenti di quello che siamo riflettendo che se le macchine hanno così tanto bisogno di noi, noi siamo una ricchezza e un capitale che va riconosciuto e remunerato, anche perché le macchine hanno la tendenza a portare via i lavori agli umani. Niente di male per carità, se un lavoro può essere automatizzato in genere è indegno di un umano. Ma sappiamo che finora il salario che retribuiva il lavoro è stata la più diffusa maniera per ridistribuire i beni all’interno di una società. Dobbiamo trovarne un’altra: concentriamoci su questo, e lasciamo perdere tutte le vane fantasie sul Golem che prenderà il potere.