Mario Tozzi
Non porterebbe alcun vantaggio alla comprensione dei fenomeni e al da farsi, se concentrassimo tutte le nostre attenzioni sull’Emilia-Romagna, proprio mentre le piogge aggrediscono Umbria e Marche, appena dopo che la Liguria è stata trasformata in un dominio subacqueo, e Calabria e Sicilia vedono l’acqua entrare nelle case. Tutta l’Italia viene ormai alluvionata con una frequenza e una consistenza sconosciute prima. Ma certo il caso dell’Emilia-Romagna è comunque in qualche modo paradigmatico per diverse ragioni, a partire da quella territoriale: una regione tra le più sviluppate dal punto di vista economico è anche la più interessata da frane e alluvioni, ed è difficile pensare che si tratti di un caso.
In Emilia-Romagna si è costruito come forsennati e lo si è fatto anche nelle aree a pericolosità idraulica, quelle che andrebbero lasciate intatte e, anzi, lentamente sgombrate da parte della popolazione residente e dalle costruzioni. Non bastasse, la parte orientale della regione ha visto progressivamente cancellati quei lacerti di natura che avevano resistito al furore bonificatorio dei nostri antenati e che, oggi, avrebbero protetto case e persone.
Non si è arrivati agli eccessi della Liguria, quella mezzaluna di montagne e colline a picco sul mare che è stata trasformata in un anfiteatro di asfalto e cemento perennemente sommerso e aggredito dalle mareggiate. E non siamo nello stato comatoso di Calabria e Sicilia, scampate solo per via della siccità alle ultime piogge, ma teatri delle famigerate alluvioni dell’abusivismo edilizio e dell’abbandono. Siamo in una regione moderna che produce reddito e eccellenze, ma che non ha tenuto in alcun conto l’ambiente naturale, ritenendo a torto che le aree di pertinenza fluviale dovessero essere sacrificate ai capannoni industriali e alla regimentazione coatta delle acque. Per non dire dei fiumi tombati sotto le città: Modena e soprattutto Bologna, dove oggi ci si meraviglia dell’esplosione del Reno e dell’Aposa, come se ci si potesse dimenticare che per visitarli ci si deva infilare sotto terra, perché sono stati sottratti al godimento della popolazione e colpevolmente mutati in bombe idrauliche a orologeria.
E in Italia ci sono qualcosa come dodicimila chilometri di corsi d’acqua seppelliti da asfalto e cemento. Non che non accada lo stesso in Lombardia (Seveso e Lambro, per citare un esempio) o altrove, ma il conto che la crisi climatica ci sta presentando è più salato in Emilia-Romagna e non servirà a molto prendersela con il cameriere che lo notifica.
Perché lo stato del territorio c’entra parecchio, ma è evidente che il minimo comune denominatore dell’Italia alluvionata di fine ottobre 2024 è l’accelerazione spropositata che la crisi climatica sembra aver messo agli eventi meteorologici a carattere violento, come ampiamente preventivato dai ricercatori specialisti già da alcuni anni. In definitiva, queste alluvioni sono figlie delle nostre attività produttive, un legame ormai ben delineato, visto che la discussione sul ruolo dei sapiens, fra gli scienziati, è stata chiusa da tempo e si riaprirà solo se emergeranno nuovi dati. Che al momento non ci sono. Ed è questo legame che va spezzato, agendo sulle cause, cioè azzerando le nostre emissioni climalteranti. Solo allora potremo dedicarci all’adattamento e alla mitigazione degli effetti, altrimenti rischiamo di adottare provvedimenti che costeranno sacrifici, ma che non saranno risolutivi, perché, intanto che li mettiamo in atto, le cose peggiorano.
Nei fatti, però, non riusciamo a prendere decisioni significative per diminuire le emissioni, figuriamoci per azzerarle. Anche per colpa dell’ignoranza diffusa e della malafede. Così, perdendoci in polemiche sterili, non azzeriamo né ci adattiamo. E finiamo sott’acqua.
Stiamo però affrontando la sfida della crisi climatica e del degrado territoriale con le armi giuste? A giudicare dai risultati sembrerebbe di no, non soltanto perché le grandi opere, la nostra unica risposta, hanno bisogno di grandi quantità di denaro che spesso manca, ma soprattutto perché, dove pure sono state messe in atto, non hanno funzionato e non funzionano come ci si aspetterebbe. Naturalmente qui non parliamo delle piccole opere, delle vasche di espansione puntuali o della manutenzione ordinaria e straordinaria: quelle opere occorrono, ma sapienti, puntuali e nel contesto di interventi “dolci”. Qui parliamo di grandi dighe, muraglioni di contenimento, briglie, sbancamenti e uso fuori misura del cemento: di quello non abbiamo bisogno perché non funziona e, anzi, peggiora la situazione. Qui parliamo dell’invasione sistematica delle aree di pertinenza di montagne e fiumi: non è un caso che esistano letti di piena e di magra e che vadano rispettati entrambi. Fiumi e montagne sono sistemi naturali, significa che più li irrigidisci e peggio fai: un fiume lasciato libero fa meno danni, a patto di mantenersi alla giusta distanza.
Ma l’Emilia-Romagna, come la Lombardia (più di altre realtà), ci sta indicando che abbiamo raggiunto uno dei limiti più insormontabili dello sviluppo economico, quello del suolo, un limite che non può essere in alcun modo scavalcato. Semplicemente non possiamo moltiplicare le attività produttive, gli ettari da coltivare, gli allevamenti, le fabbriche, gli impianti e le infrastrutture, perché nessun vivente può vivere in un contesto completamente artificiale e perché lo sviluppo non può incrementare all’infinito su un pianeta per definizione finito.
Il moltiplicarsi delle alluvioni ci dice che il re è nudo e rivela che il futuro non può risiedere nelle quantità, ma, se ci riusciamo, nella qualità. Il capitale economico è integralmente figlio del capitale naturale, ma quest’ultimo non è rifondabile alla scala dei tempi dell’uomo e lo stiamo consumando con un assalto ipertecnologico degno di scopi più nobili. Dove oggi i fiumi esondano, in passato c’erano paludi e acquitrini, cioè i territori dell’acqua, che ritornano temporaneamente alla loro origine antica. Solo che in mezzo ci sono le nostre vite e i nostri beni.