Matthew Stone
4 Agosto 2022Futuro Antico. Intervista allo psicanalista Massimo Ammaniti
4 Agosto 2022Grande intellettuale, esperto di Botticelli e degli indiani Navajos a lungo malato psichiatrico, ha posto il mito al centro dei propri studi Ora una raccolta di saggi lo ricorda, svelandone l’attualità
Chi è, chi è stato, Aby Warburg? Un’icona della cultura contemporanea, uno stravagante di successo, un malinconico di genio? Oppure un intellettuale militante, il fondatore di un nuovo metodo, l’inventore di macchine per pensare? Nella leggenda che ormai lo avvolge, fino a qualche tempo fa Warburg è rimasto un “famosissimo sconosciuto”. A ricostruirne un profilo più attendibile sono stati, negli ultimi decenni, una serie di autori italiani di nascita o adozione, i cui testi vengono adesso raccolti, con mirabile competenza e passione, dalla grecista Monica Centanni in un’antologia, edita da Ronzani con il titoloWarburg e il pensiero vivente .
I loro nomi — Pasquali, Praz, Bing, Frugoni, Agamben, Bilancioni, Dal Lago, Carchia, Settis, Forster, Ghelardi — sono garanzia della qualità dell’operazione. Il meno che si possa dire è che, proprio per le diverse angolature da cui è guardata, questa raccolta getta un fascio di luce intensa su una delle più straordinarie imprese culturali novecentesche.
Nato da una famiglia di ricchi banchieri israeliti di Amburgo, passò un periodo di studi a Firenze, conseguendo il dottorato con una tesi su Botticelli. Dopo una serie di esperienze, tra cui il viaggio nel Nuovo Messico, tra gli indiani Pueblo e Navajos, si dedicò alla costruzione della grande biblioteca di famiglia, poi diventata il centro propulsore di un sistematico programma di ricerca. All’avvento del nazismo, quando l’autore era già scomparso, la biblioteca fu imbarcata su due navi e trasferita a Londra, dove tuttora risiede. Salvatore Settis ne ha ricostruito la storia complessa, riannodandone le vicende al progetto dell’autore. Il quale, tuttavia, ha finito per essere in qualche modo oscurato dal crescente prestigio dell’Istituto cui egli stesso aveva dato vita. Gli scritti di Warburg, editi in Germania nei primi anni Trenta, e parzialmente tradotti in Italia, hanno dovuto aspettare a lungo l’edizione inglese, varata solo nel 1999 per iniziativa di Settis e Forster.
Vero è che nel 1970 è apparsa l’ Intellectual Biography di Ernst Gombrich, contenente l’edizione di importanti inediti. Eppure, con l’occhio di oggi, si deve dire che, se hafavorito la diffusione dell’opera di Warburg, non ha giovato alla sua comprensione. Segno di una distanza, umana e scientifica, che arriva quasi all’incompatibilità, è il modo in cui Gombrich amplifica l’episodio della malattia mentale di Warburg, senza intenderne il significato per il suo percorso intellettuale. Eppure proprio essa conteneva una chiave decisiva per penetrare nella sua scatola nera. Alla fine del soggiorno di sei anni nel sanatorio di Kreuzlingen, Warburg chiese di provare la propria guarigione con una conferenza per i pazienti, scegliendo come tema il rituale del serpente conosciuto nel soggiorno americano. In quel modo, più che la sua guarigione, egli dimostrava l’inerenza della malattia — poi riconosciuta dallo psichiatra Emil Kraepelin come disturbo bipolare maniaco-depressivo — al suo progetto. Come si espresse Giorgio Pasquali, «la malattia fu in un certo senso la continuazione della sua ricerca scientifica».
Quello che il grande filologo intuiva, penetrando dove Gombrich non aveva saputo arrivare, è che se c’è una costante nell’opera di Warburg, dai grandi saggi fiorentini all’ideazione dell’ Atlante Mnemosyne , è proprio la tensione bipolare tra estremi già riconosciuta da Nietzsche al centro dell’esperienza greca. Sappiamo che l’oggetto specifico della “scienza senza nome” (Agamben) cui Warburg dà vita è costituito dalla trasmigrazione della tradizione antica nella cultura rinascimentale. Ma, tutt’altro che un’evoluzione, tale transito conosce resistenze ed attriti, deviazioni e tradimenti — un’irriducibile contrasto tra elementi confliggenti. In quegli scarti si annidano i demoni, le pulsioni e gli sgomenti, che segnano, come cicatrici indelebili, la grande tradizione antica e moderna. Vero è che questo inesausto scontro tra poli — mito e ragione, magia e scienza, vita e forme — non implica il cedimento alle potenze della notte. Per Warburg esse vanno riconosciute, senza farsene travolgere, mantenendo un precario equilibrio con quelle della luce. Ma con la consapevolezza che il simbolo è sempre spezzato. Ciò che unisce le tradizioni è anche ciò che le divide, come la memoria è abitata dall’oblio. Può ritrovarsi solo ciò che è stato una volta perduto. Perché qualcosa possa riemergere in superficie deve essere prima andata a fondo. Senza queste ambivalenze la cultura, e la stessa esistenza, inaridirebbero in un vuoto formalismo. È questo il segreto del “pensiero vivente” che, aldilà delle mode e delle suggestioni, Warburg ci comunica con una forza intatta: al fondo della vita non c’è l’Uno, ma il due, un conflitto costitutivo degli stessi poli che contrappone. Quando egli definisce il suo Atlante «una storia di fantasmi per persone veramente adulte» allude alla presenza straniante di qualcosa che disfa la nostra esperienza nel momento stesso in cui la rende possibile. Ad appena quattro anni dalla sua morte, avvenuta improvvisamente nel 1929, quei fantasmi avrebbero preso corpo trascinando l’Europa e il mondo nella tempesta. Come conclude Alessandro Dal Lago nel saggio forse più bello della raccolta, «i luoghi in cui la ricerca di Warburg ci conduce sono quelli della nostra inquietudine». Dietro di essi si riconoscono i padri e i maestri, ma anche le ferite e le ombre che essi non hanno mai smesso di evocare.