Da giornalista rischio la vita Lascio in lacrime la Striscia ma è qui che voglio tornare
CONFINE GAZA – EGITTO — Ieri ho chiamato mia madre di buon mattino. Le ho detto «è arrivato il momento». Lei ha capito subito. Si è messa a piangere, poi mi ha dato la sua benedizione. Ero andato una settimana fa a salutarla. Ma ci siamo detti addio così tante volte, che forse non era preparata. Sì, dopo settimane di esitazioni mi sono deciso anche io. Ho lasciato la Striscia di Gaza. Mi sono organizzato in gran segreto e non ho detto nulla nemmeno a voi perché temevo per la mia vita: ho buoni motivi per pensare che come giornalista stavo diventando un target. È successo a molti altri, diventi improvvisamente scomodo e non sai nemmeno esattamente perché. Troppi miei colleghi sono morti. Tanti altri sono fuggiti o stanno fuggendo proprio ora. Salvo pochi amici e mio fratello Hassan, non l’ho detto a nessuno fino all’ultimo. Ora vi scrivo dal check-in egiziano, mentre affronto la lunga fila dei disperati come me. Che sorridono fra le lacrime, felici finalmente di lasciarsi tanto orrore alle spalle. Ben sapendo che forse non rivedranno mai più i loro cari.
Ho sperato a lungo di poterlo evitare. Convinto che prima o poi una soluzione si sarebbe trovata: lo scambio di ostaggi e un accordo per un cessate il fuoco che si trasformasse in accordo di pace sempre dietro l’angolo. I fatti stanno smentendo le mie speranze. E ora vado via: col cuore a pezzi. Perché mi lascio indietro tutto ciò che amo: il luogo dove sono nato. La mia famiglia: la mia anziana madre di recente diventata vedova, che sopravvive in un rifugio strapieno di gente. Mia sorella Samia, che è nella mia casa di Jabalia e patisce la fame. Mio fratello Hassan, il medico di cui vi ho parlato tante volte. E poi i miei amici più cari: e fra tutti Saaed, con la cui famiglia io e le mie figlie abbiamo convissuto tutti questi mesi, fino a fonderci in un’unica cosa. Proprio Hassan e Saeed mi hanno accompagnato ieri mattina presto al check-in. Ci siamo fatti forza fino all’ultimo, cercando di scherzare. Ci siamo fatti una foto ricordo. Ma poi al momento dell’abbraccio nessuno di noi è riuscito a trattenere le lacrime.
Mi sono reso conto di essere in serio pericolo tre settimane fa. E ho deciso di dar fondo ai miei risparmi e chiedere anche io il visto attraverso l’agenzia Hala, che per denaro garantisce un passaggio verso l’Egitto e la vita. In realtà ho cambiato idea millevolte nell’ultimo mese. Come sapete ero così certo di voler restare qui da aver mandato via da sole anche le mie figlie, che ora sono in Olanda. Pensavo che saperle al sicuro mi avrebbe aiutato a fare meglio il mio lavoro. E all’inizio è stato vero. Ma qui la situazione peggiora, anziché migliorare. Ci sono molti più momenti di calma, rispetto a prima. Ma è una quiete relativa. Il rischio resta costante. Anche martedì notte ci sono stati nuovi morti e non troppo lontano da dove vivevo io. C’è stato un bombardamentosu Yabna, campo profughi nei pressi di Rafah: non so se mirato o meno, non so chi viveva in quella casa. Ma a morire sono state almeno 11 persone e ancora una volta la metà di queste erano bambini. Quelle bombe sono cadute poco prima che scoprissi che sulle liste per uscire c’era anche il mio nome. Avevo appena visto quei corpicini martoriati. Così quando ho letto il mio nome non so dire se ho provato più strazio o più gioia.
Il Ramadan è finito. Fra pochi giorni è Pesach, la Pasqua ebraica. E dopo? Dopo non ho dubbi che l’invasione via terra di Rafah ci sarà. Oltre un milione di persone saranno costrette in tendopoli per le quali non esistono nemmeno piani, non sono stati studiati sistemi igienici, né sistemi di distribuzione del cibo. Chi finirà lì già sa di essere condannata a un inferno che durerà a lungo: e se non morirà sotto le bombe, rischierà di morire di malattie e stenti. Temo che la situazione della Striscia precipiterà. E nel caos di un intervento armato, fare il giornalista diventa troppo pericoloso. L’ho già visto altrove. Quando l’esercito si avvicina, i primi a morire sono quelli che raccontano. Il nostro elmetto e giubbotto antiproiettile con su scritto “press” ci trasforma in bersagli. E poi, ammesso che si sopravviva, con l’invasione via terra, chi resta dentro sarà definitivamente in trappola. Lontano dal confine di Rafah, non c’è più nessuna possibilità di uscire. C’è il rischio di restare bloccati per mesi. Forse per anni. Forse per sempre. Proprio non me la sento di rischiare di non rivedere le mie figlie per chissà quanto tempo. E poi sono esausto. Sei mesi di guerra, sempre sul campo a raccontare atrocità e sofferenza, mi hanno spezzato. Ho deciso di andarmene per la mia vita e per la mia salute mentale. Ma non mi allontanerò troppo. Resto in Egitto, mantenendo i contatti con chi è dentro. Per aiutarli a raccontare. Non verrò in Europa. Appena le cose andranno un po’ meglio, è nella mia Gaza che voglio rientrare.
Sami al-Ajrami