Era il sogno americano con la bandana gialla e i baffi biondi a ferro di cavallo poi finito nella stanza dei giochi di Donald Trump, un trofeo come un altro. Hulk Hogan ascesa, caduta, ascesa nell’immaginario americano. Se ne va a 71 anni l’uomo-wrestling, con tutto il carico di trucchi e contraddizioni che per trent’anni – contro il tempo – è riuscito a tenere vivo lo spettacolo.
Ha incarnato quello che oggi è il trumpismo: prevaricazione, violenza, finzione, forzata voglia di piacere. Hogan e “Mister T” (Lawrence Tureaud, che era P.E. Baracus nella serie A-Team) hanno fatto del wrestler la lingua dei ragazzini, il sostituto della boxe negli adolescenti, un po’ sport, molto teatro.
Quando Hulk Hogan sollevò André the Giant tutti capimmo che era qualcosa altro, qualcosa di speciale, anche se ci stava ingannando, e anche lui, forse per un attimo, fece coincidere quello sforzo con la gioia.
Il wrestling in prima serata, niente raccontava meglio l’America. Un’illusione di muscoli e vittorie, di liti e colpi di scena, la Marvel in carne e ossa e c’era anche il futuro, quello tragico trumpiano.
Hulk Hogan era un uragano che ci stava dicendo quello che avrebbero fatto con le nostre vite: scontri e rappresentazione. Era ovunque, cartoni animati, film – compare in Rocky III e questo ci dice che Sylvester Stallone era un Zemeckis con meno tecnologia – serie televisive (Hogan Knows Best, Thunder in Paradise e China, IL), figurine, pubblicità di deodoranti e corn flakes che dovevi mangiare per diventare come lui, e chi non lo conosceva era indietro, perché era un pirata del capitalismo, faceva surf nei canali tivù, la sua vita era una serie che anticipava tutto: gli scandali, la violenza e l’illusione.
Aveva i muscoli, ma non l’etica. Sapeva parlare alle folle alzando le braccia e facendo le giuste espressioni che saprebbe replicare solo Jim Carrey, era la pazzia della forza – come quando si strappò la maglietta per promuovere Trump – la semplicità di un bicipite che macinava dollari.
Volevo fare il musicista
Ma in principio c’era un ragazzino che voleva essere un musicista e che come Kurt Cobain suonava in un garage della provincia americana immaginando i palchi e le tournée che poi ha pure avuto, ma con un ruolo diverso, senza note, con prese e salti su un ring. Un saltimbanco che urlava tantissimo.
Il suo vero nome era Terry Gene Bollea un nome più da gangster – il nonno paterno era di Vercelli – che da attore o sportivo, non suonava, non appoggiava, e soprattutto era di parte, mentre Hulk Hogan ammiccava a tutti, era nato ad Augusta, in Georgia, da dove poi sono arrivati i R.E.M. che nacquero ad Athens però.
Hogan si sposta a Port Tampa, in Florida dove ha una infanzia americana normale: baseball, basso e voglia di andarsene. Ma mentre suonava con diverse band capì di essere più simile a Dusty Rhodes e Billy Graham – i wrestler del momento – che a Frank Zappa. Seguendo le loro gesta arrivò al maestro Hiro Matsuda, l’uomo che allenava i wrestler della Championship Wrestling from Florida (CWF).
Matsuda aveva un rituale di iniziazione: rompeva una gamba agli allievi per capire se avevano la forza di resistere e la voglia di tornare, a Hogan ruppe una caviglia, lui tornò, e la carriera prese il via. Un anno dopo i fratelli Brisco – due da film dei Coen – lo misero sul ring e lo fecero combattere, allora non aveva ancora la bandana, ma solo un paio di stivali colorati, poi si mise una maschera, infine se ne andò. I primi successi arrivarono in Alabama. Mentre a Memphis si accorse in uno show di essere più grosso di Lou Ferrigno, star de L’incredibile Hulk e iniziò a esibirsi come Terry “The Hulk” Boulder.
Il primo titolo
Nel dicembre 1979, Hogan vinse il suo primo titolo di wrestling professionistico, l’NWA Southeastern Heavyweight Championship (Northern Division). Il mese prima al Madison Square Garden sconfisse Ted DiBiase da Hulk Hogan, era nata una star.
Per questo fu aviotrasportato in Giappone, dove era Ichiban (numero uno) e dove sfoderò tutto il catalogo di mosse tecniche apprese con dolore da Hiro Matsuda, molto differenti dalle risse americane che facevano molto saloon e tanti ascolti e affetto americano.
Hogan fu il primo vincitore dell’International Wrestling Grand Prix (IWGP) e il primo detentore di una prima versione dell’IWGP Heavyweight Championship, sconfiggendo Antonio Inoki. In pratica era l’Uruguay che vinceva il mondiale in Brasile nel 1950.
Hogan nel 1984 era già il preferito di tutti i fan, in pochi anni era in cima all’immaginario americano, entrando e uscendo dalle federazioni e salendo e scendendo dai ring con fuori programma, inseguimenti, finendo per schienare tutti, perché era un brand vincente, perdendo i capelli si mise la bandana – molto prima di Berlusconi con Blair ma a riprova che piaceva alle mogli inglesi e no – e prese a strapparsi la maglia come l’originale Hulk, tanto che i commentatori del wrestling annunciavano: «Hulkamania is here!».
Un modo di vivere
Era un modo di vivere prima che di combattere che seguiva quattro semplici comandamenti: allenarsi, dire preghiere, mangiare vitamine, credere in sé stessi. In pratica era un predicatore che faceva a botte.
Come lo zio Sam il giovane Hogan indicava l’avversario, il prescelto, e poi lo portava alla sconfitta, un rito che piaceva moltissimo, «Hulking up» era il suo uscire dalle difficoltà, quando sembrava finito stava per cominciare il bello, il suo colpo di scena era il momento più atteso, quello della riscossa.
Per tutti gli anni Ottanta era il corpo dell’America in costume giallo, muscoli in evidenza e rito di colpi e riscossa. Non si contano le sue faide, in pratica era la telenovela dei maschi americani dai 6 ai 96 anni. Dacci oggi la nostra dose di schienate, solleva il gigante, abbatti il prepotente, amen.
Il declino
Con l’arrivo degli anni Duemila cominciarono prima i cambi di look, da giallo divenne nero, da biondo si fece scuro, rimase solo la bandana ma al posto dell’alloro arrivarono gli scandali, le controversie e il declino, una tranquilla storia americana che dice gloria, polvere, glorietta, scandalo, scuse, pesca e nostalgia.
Il ragazzo americano era razzista (disse che lo era fino a un certo punto) e violento, la parte dietro la maschera, come se sul ring fosse stato un angelo. Da qualche parte doveva prendere l’energia per essere cattivo e inseguire i nemici, per recitare la parte dell’eroe che ristabiliva priorità. È andato e venuto più volte di qualunque tornado passato sulla Florida.
Alla fine l’Hogan è stato un po’ Luna Park, un po’ circo, un trapezista del ring, un po’ boxeur un po’ clown, un po’ persino il Superman fatto in casa con i muscoli veri e un realismo cinematografico che aveva convinto tutti. Alla fine ebbe persino il suo disco, Hulk Rules, perso tra i suoi cento marchi e le sue mille bugie. È stato un grande attore, autodidatta, con una drammaturgia semplice ed efficace. Ha avuto tutto, sudando moltissimo, ma non riuscendo mai a essere né felice né libero. È stato il corpo dell’America: prima di Reagan e poi di Trump.