Leggere Auden partendo dalla fine
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LONDRA
“Si legge un libro per divertirsi, sennò che cosa si legge a fare?”. Potrebbe essere questo l’epitaffio sulla tomba di Martin Amis, scomparso ieri a 73 anni d’età: l’autore di L’informazione, Money, Cane Giallo, e tanti altri romanzi e saggi aveva molti pregi, era certamente uno degli scrittori inglesi più affermati e influenti della sua generazione, ma non c’è dubbio che il suo tratto caratteristico fosse la capacità di intrattenere il lettore con una scrittura inventiva e pirotecnica.
Con lui era impossibile annoiarsi, sulla carta e pure di persona, come può testimoniare un giornalista che lo ha intervistato più volte nella sua bella casa londinese di Primrose Hill, la “collina delle primule” da cui si gode la vista più bella sulla capitale, quartiere posh di stelle della musica e divi del cinema, ribattezzata “collina della promiscuità” per la frequenza dei flirt fra i vip che l’abitavano, dunque un rifugio particolarmente adatto a un artista della parola che si divertiva a scandalizzare e stupire anche nella vita di tutti i giorni.
Ma da qualche anno Amis si era trasferito a New York, “dall’altra parte dello stagno” come gli abitanti delle due città, gemelle anche nell’ego, chiamano ironicamente l’Atlantico; ed è in America, nell’abitazione di Lake Worth, in Florida, che si è spento ieri precocemente, dopo una battaglia con un cancro all’esofago. È stata la sua seconda moglie, l’uruguayana Isabel Fonseca, ad annunciarne la morte e la causa del decesso.
Nato nel 1949 a Oxford, dove finì per laurearsi in letteratura inglese con il massimo dei voti, era figlio di un altro grande scrittore inglese, Kingsley Amis, vincitore del prestigioso Booker Prize nel 1986, un premio a cui anche Martin è stato candidato ma senza mai ottenerlo. “Dal punto di vista letterario, mio padre è stato un peso che mi ha sempre accompagnato”, diceva. Della morte del genitore ha poi scritto nella sua autobiografia Esperienza, uscito nel 2000, un libro nel quale parlava anche della separazione dalla prima moglie e madre dei suoi due figli, l’accademica americana Antonia Phillips, descrivendo poi la sua scoperta di essere padre di una ragazza di 17 anni che non aveva mai incontrato.
Martedì di memoir ne sta per uscire un altro: La storia da dentro, pubblicato in Italia come tutti i suoi libri da Einaudi, una fluviale autobiografia romanzata che, mescolando il materiale privato all’invenzione narrativa, la meditazione filosofica, il manuale di scrittura, il gossip piccante, il saggio, l’elegia e le splendide “chiacchiere sul nulla”, come lui stesso le definiva, restituisce il vibrante ritratto di un uomo e di uno scrittore, ma anche dei suoi mentori, amici e compagni di strada, tra cui Philip Larkin, Saul Bellow e in testa a tutti Christopher Hitchens. Sarà una efficace chiave d’accesso a una delle vene più preziose della cultura contemporanea, proprio nel momento in cui è venuta a mancare.
Hitchens, giornalista e scrittore, deceduto nel 2011, anche lui per un tumore, era probabilmente il suo migliore amico: insieme sono stati protagonisti di una stagione intellettuale sulle due sponde dell’oceano, progressisti ma fuori da ogni linea e insofferenti di qualsiasi rigida ideologia. Non sempre andando d’accordo: quando nel 2002 Amis scrisse Koba il Terribile, un saggio sul Grande Terrore di Stalin, bisticciò con Hitchens, accusandolo di simpatie per il dittatore sovietico e per il comunismo. La risposta arrivò con un articolo al vetriolo sulla rivista The Atlantic, ma la loro amicizia sopravvisse lo stesso, tanto che fu Amis a pronunciare l’elogio funebre alle esequie di Christopher. Altre polemiche sono scoppiate con Il secondo aereo, il pamphlet di Amis sull’attacco terroristico all’America del settembre 2001, che gli hanno attirato critiche di islamofobia.
Ma il suo piatto forte è rimasto la narrativa. Money, apparso nel 1984, è considerato dal Guardian uno dei cento migliori romanzi in lingua inglese, specchio dello spirito del tempo, irriverente, comico, senza freni, paragonato dal New York Times a “un racconto in stato di trance, in equilibrio precario sullo sgabello di un bar”. La tesi di Martin, espressa in innumerevoli incontri con la stampa, era che “la trama ha importanza solo nei thriller”: quello che conta, in un romanzo, è la voce dell’autore, sosteneva, “e se la voce non funziona sei fottuto”.
Uno che rompeva le regole, anzi per il quale le regole non esistevano. A cui piaceva attirare attenzione su di sé e non lo nascondeva, mettendosi dichiaratamente dentro alle sue opere. “Il principe della corona della letteratura hip”: così era stato etichettato dalla critica. “Il cattivo di bell’aspetto del romanzo inglese” era un altro dei suoi soprannomi. Un predestinato al successo, con un padre simile: “Per me diventare un romanziere è stato come ricevere in eredità il pub di famiglia” scherzava da parte sua.
Aveva sicuramente un carattere difficile e un talento immenso, in virtù del quale ha avuto enorme influenza sugli scrittori più giovani del suo Paese. “L’importante è reggere al test del tempo, continuare a essere letto quando non ci sei più”, confidava, “questo è l’unico metro per giudicare uno scrittore”. E Martin Amis lo ha superato quel test, anche andandosene troppo presto. Come scrisse in La vedova incinta, uno dei suoi ultimi romanzi: “Ogni tanto dici a te stesso, questo è passato un po’ troppo in fretta. Un po’ troppo in fretta”. Lo stesso si può dire ora della sua vita.