Mettendo per un attimo da parte l’incipiente Catherine Deneuve, della Settima Arte gallica e globale Aimée è la bruna, Brigitte Bardot la bionda, s’intende, con tutte le semplificazioni ed esemplificazioni del caso: non le si richiede la seduzione, troppo alta, altra e altera qual è, solo che esista, e ammali per distacco. Vorremmo ma non possiamo, si guarda ma non si tocca, malgrado Lola e le altre – come dimenticare la Justine di Rapporto a quattro (George Cukor, 1969)? – apparenze. Sì, Anouk è la Maddalena de La dolce vita, che titilla: “Quando faccio l’amore… ecco sì, nell’amore c’è questa tensione” e smobilita: “Vorrei vivere in una città nuova e non incontrare più nessuno”.
Da uscirci pazzi, e il destino è già nel nome e, vieppiù, nel cognome: quando nasce, il 27 aprile del 1932 a Parigi, si chiama Françoise Dreyfus, per sfuggire la persecuzione antisemita diverrà Durand, ma qui interessa Anouk, che mutua dal suo primo ruolo, appena tredicenne, in La Maison sur le mer nel 1946, qui intriga Aimée, participio passato e ipoteca sul futuro che le affibbia addirittura Jacques Prévert, “perché tutti l’amano”. Si scioglie, un poco, nelle parti – “Non so più dove inizia Anouk e dove inizia Lola, dove finisce Lola e dove finisce Anouk”, confesserà – e si concede, alla bisogna: “Con Fellini ho perso parecchi ritegni. Forse farei anche le piroette, se me lo chiedesse”, ma senza nulla togliere, una posa, un pensiero, perfino un sintomo, al suo ineffabile mistero: non si capisce Madame Aimé, si venera.
Da Trieste in giù, fa proseliti: all’ereditiera Maddalena, vecchia amica e segretamente infatuata di Marcello (Mastroianni), Fellini dà seguito con la moglie che non ne può più – lui è sempre Marcello – di 8 ½; Vittorio De Sica l’annovera ne Il giudizio universale; Sergio Corbucci, Alessandro Blasetti (Liolà, 1963), Pasquale Festa Campanile, Florestano Vancini (Le stagioni del nostro amore, 1966), Bernardo Bertolucci (La tragedia di un uomo ridicolo, 1981), tra gli altri, ne fanno tesoro. Su tutti, Marco Bellocchio, che la precipita in Salto nel vuoto: nevrotica Marta, inquietamente affratellata a Mauro (Michel Piccoli), Anouk si laurea migliore attrice a Cannes 1980.
Nomen omen, è amata dagli autori internazionali: Sidney Lumet le ritaglia – che bel titolo – La virtù sdraiata, Robert Altman la vuole, così piena di stile, stilista derubata in Prêt-a-Porter, dove Mastroianni ahilei è però appannaggio di Sophia Loren… Tutto il resto, o quasi, le viene dal prolifico sodalizio con Lelouch, che nel 1966 le affida l’Anne Gauthier divisa tra il marito scomparso e il pilota di rally Jean-Louis Trintignant: Un uomo, una donna s’aggiudica l’Oscar al miglior film straniero, lei il Golden Globe – e tanta parte dei dialoghi amorosi degli spettatori. Il definitivo sequel, I migliori anni della nostra vita, ancora con Trintignant e per la regia di Lelouch, è nel 2019 il suo ultimo film, accolto sulla Croisette come il testamento di una generazione. Nostalgia canaglissima.
Figlia d’arte (gli attori Henri Dreyfus e Geneviève Sorya), l’ha messa da parte con dovizia di riconoscimenti, dal César onorario all’Orso d’Oro alla carriera, ma crediamo abbia convenuto con l’Anne di Lelouch: “Tra l’arte e la vita io scelgo la vita”. Quattro matrimoni – il terzo con il collega britannico Albert Finney – e un funerale, se n’è andata nella sua casa di Parigi, assistita dalla figlia, l’attrice Manuela Papatakis, e i familiari. Ma non se ne andrà, forte di una fama senza clamore, un lascito senza strepiti. Contraddicendo l’iconica Maddalena, che “se stessi zitta è come se non esistessi più”, Anouk Aimée ha saputo fare del suo mistero il suo mestiere.
@fpontiggia1