Alain Touraine era una persona gentile e generosa. Non si sottraeva mai a un’intervista; non esitava mai a rispondere anche a una semplice domanda, a qualunque ora in qualunque giorno della settimana. E non soltanto per buona educazione e totale assenza di alterigia. Era il suo metodo: il confronto, la sfida continua dell’approfondimento. Il grande sociologo è scomparso ieri a Parigi, aveva 97 anni, e lascia una scia infinita di studi e di spunti nati sull’impulso all’engangement, l’impegno com’è nella tradizione intellettuale francese. Sociologo esploratore del mondo del lavoro, senza frontiere e senza limiti, in uno degli ultimi incontri ha riassunto così il centro del suo interesse: «Capire il conflitto». Non per niente uno dei suoi testi più emblematici del 1965 si intitola Sociologie de l’action, agire e studiare: «Una società che non riflette su se stessa non può che affondare nella decadenza, lentamente o brutalmente».
Uomo di sinistra, sempre rispettato e apprezzato anche dalla destra, Touraine ha analizzato per oltre settant’anni le società industriali francesi e del mondo, in una prospettiva socialdemocratica che lo ha portato ad appoggiare negli anni 90 Michel Rocard, il leader della “deuxième gauche”, la sinistra moderata del partito socialista, sempre considerato eretico dal massimalismo istintivo della sinistra francese. «La Francia – scriveva Touraine – è rimasta a lungo prigioniera di un sogno rivoluzionario». Nel 2017 è stato un deciso sostenitore di Emmanuel Macron che ha sempre considerato Rocard come il suo modello in politica. Il giovane candidato era appena apparso come un ufo nella politica francese e Touraine lo ha salutato così: «Macron ha capito che bisognava riempire il vuoto creato dalla doppia decomposizione di destra e sinistra proeuropee e salvato il Paese dal nazionalismo populista. L’essenziale non era scegliere la destra contro la sinistra, o la sinistra contro la destra, ma l’avvenire contro il passato».
Le difficoltà e le contraddizioni di quella politica sono apparse poco dopo con la crisi dei gilet gialli che il sociologo ha subito classificato come la drammatica evidenza del conflitto tra la Francia provinciale e popolare (la «France d’en bas») contrapposta a quella elitaria e cittadina soprattutto parigina (la «France d’en haut») .
Alain Touraine era nato il 3 agosto 1925 nel Calvados , figlio di un medico dermatologo appassionato di libri e abbonato alle prime edizioni Gallimard: «Appartengo a una delle ultime generazioni cresciute nella letteratura, la mia formazione è stata più moralista che politica». Studente alla Normale e alla Sorbona dove ha incontrato il marxista Ernest Labrousse che lo ha inviato a studiare la riforma agraria in Ungheria, esperienza che lo ha marcato nella necessità dello studio della società nella realtà.
Al ritorno si fa assumere in una miniera di carbone nei pressi di Valenciennes, nel nord est della Francia, dove assiste alle risse quotidiane tra i lavoratori tedeschi e polacchi. Un’esperienza che Touraine ha poi chiamato il suo «cammino di Damasco», una conversione cresciuta anche sulle pagine del sociologo Georges Friedmann sui problemi umani del “machinisme industriel”, l’impiego massiccio delle macchine nel processo industriale, il modello fordista nelle grandi fabbriche. Touraine se ne appassiona, Friedmann gli affida un’inchiesta nel cuore dello stabilimento Renault di Billancourt, alle porte di Parigi. Il fuoco della ricerca dell’ex rampollo di una famiglia provinciale con il suo piccolo salotto letterario, era diventata la società industriale più conflittuale negli anni che in Francia si chiamano “i trenta gloriosi” e corrispondono alla nostra idea del boom.
Dall’inizio degli anni Sessanta ha seguito tutti i movimenti sociali più significativi in Europa e nel mondo: in Polonia, in Cile, in Messico. E naturalmente il ’68 cui ha dedicato uno dei suoi saggi più noti, Il movimento di Maggio e il comunismo utopico, da un angolo più pragmatico che non ideologico mettendo in risalto anche la ricerca della stima di sé, il riconoscimento dei diritti, il problema dell’identità emersi con la contestazione giovanile. Questioni che anticipavano la società “postindustriale”. Diceva del 68: «Anche se mascherate sotto ideologie autoritarie, le rivendicazioni avevano un contenuto essenzialmente culturale». A Nanterre (dov’è nato il Maggio) Touraine è stato professore del leader del movimento Daniel Cohn-Bendit. E si divertiva a raccontare di essere stato anche il suo difensore nel processo che gli venne intentato dal decano dell’Università quando alla domanda su dove si trovasse alle 3 del pomeriggio di un certo giorno in cui erano state danneggiate le aule, Dany il Rosso rispose: «Ero a casa mia a far l’amore cosa che forse non le è mai capitata a quell’ora…».
Edgard Morin, ormai vicino a compiere 102 anni, è rimasto il solo portabandiera di quella generazione. Ieri ha definito il sociologo «uomo nobile e leale, un grande spirito». Spesso critico dei movimenti sociali più radicali, Touraine è stato definito un «liberale», aggettivo che nella politica francese equivale spesso a un insulto. Ma non se n’è mai preoccupato.