di Gregorio Botta
ROMA
Il gioco era questo: spedire una busta con dentro un disegno. Poi spedirne quattro con quattro disegni. Poi un gruppo di nove con nove disegni, e poi sedici, venticinque, trentasei e così via fino a centoventuno buste con centoventuno disegni. I numeri scelti sono arbitrari ma non casuali. Sono tutti quadrati: dal quadrato di 1 ( 1) al quadrato di 11 ( cifra molto amata dall’artista) che è appunto 121.
Il gioco prevedeva altre quattro regole: il numero di francobolli incollato sulle buste doveva essere uguale al numero delle buste spedite. Per cui quattro francobolli sull’insieme da 4, 9 su quello da 9 e così via. Tutti i francobolli erano uguali tranne uno che doveva occupare via via tutte le posizioni possibili nella griglia ortogonale in cui erano disposti. Le lettere inviate dovevano passare attraverso molti uffici postali della Francia in modo da percorrere un viaggio immaginario. ( Effetto collaterale imprevisto ma gradito: i postini si sono spesso divertiti a timbrare le buste seguendo anche loro un pattern compositivo, partecipando così alla creazione dell’opera). Infine ogni serie di spedizioni doveva avere disegni simili, e cioè variazioni su un tema dato. Per cui abbiamo: profili di oggetti disegnati a matita; frasi scritte rigorosamente con la mano sinistra ( « perché solo con la sinistra si disegna » ); il gruppo della Vergine delle rocce di Leonardo che si ingrandisce sempre di più su nove fogli extrastrong; un cerchio rosso ( l’Ens? giapponese simbolo dell’illuminazione) che si ripete 16 volte; le macchie di colore simmetriche ottenute piegando i fogli in due; la serie Alternando da uno a cento e viceversa
( i fogli quadrettati che via via si anneriscono e hanno dato origine a tanti kilim), fino alle pagine di giornale ricalcate a matita.
Il risultato sono 506 buste affrancate e timbrate e 506 disegni a tecnica mista su carta che racchiudono la sintesi del lavoro di una vita, e si stagliano sulla parete, ognuno con la sua cornice, come un gigantesco frattale, che potrebbe ancora crescere, all’infinito. Un’enorme scacchiera allineatissima che contiene il caos creativo, il tentativo di inscatolare il caso: ordine e disordine, il binomio su cui Alighiero Boetti ha costruito la sua intera esistenza artistica.
Stiamo parlando di Opera postale. De bouche à oreille, ( che in italiano potrebbe essere tradotto di bocca in bocca), l’installazione che l’artista preparò per il Centro d’arte contemporanea di Grenoble nel 1993. Una sorta di testamento che raccoglie tanti dei codici linguistici che l’artista torinese ha inventato: perché di fatto fu la sua ultima monografica. Boetti scoprì di essere malato mentre la preparava e qualche frase vergata sui fogli testimonia, forse, la consapevolezza di quanto grave fossero le sue condizioni. Un anno dopo, a soli 54 anni, sarebbe morto.
Oggi nel trentennale della scomparsa, l’Accademia di San Luca gli rende omaggio portando l’Opera postale del ’ 93 a Roma. La mostra, aperta fino al 15 febbraio, è stata curata e fortemente voluta dal presidente dell’Accademia, l’artista Marco Tirelli, che gli fu molto amico, anzi lo percepì “come un fratello maggiore”. « È sicuramente a lui che devo il mio sentimento per l’arte » , scrive in un bellissimo saggio che apre il catalogo Electa: il volume, con gli interventi di Angela Vettese, Laura Cherubini, Paolo Zellini, Gian Enzo Sperone, delle figlie Caterina e Agata Boetti e infine il ricordo di Adelina von Fürstenberg che volle la mostra a Grenoble è uno strumento prezioso per inoltrarsi nell’esposizione. Ci guida nel mondo ideale di un artista la cui opera può essere vissuta come un gioco ( lo racconta magnificamente Agata Boetti in un libro pubblicato nel 2016, Il gioco dell’arte) ma ha la serietà e la profondità filosofica che spesso nasconde l’attività ludica. « Da ragazzino lessi una piccola frase di un filosofo cinese: “ l’universo è un quadrato senza angoli”… Queste poche parole possono dar luogo a un pensiero, cosa che nessuna manifestazione naturale credo possa provocare. Ecco, io volevo metterla nei termini del primato del pensiero. La bellezza è un fatto di pensiero e di volontà di realizzarlo » .
La bellezza, dunque, come fatto mentale: l’ordine del pensiero nel disordine della vita. Questa dicotomia ha spinto Boetti a darsi regole numeriche, linguistiche, compositive in cui imbrigliare di volta in volta il potente flusso creativo che lo attraversava. Cercava di dare una mappa ( le sue amate mappe) al magma, uno schema finito, spesso un quadrato ( il quadrato magico di alchemica memoria) per l’infinito. Ma sapeva – come scrive Tirelli – di essersi dato un compito impossibile e di essere destinato al naufragio. Anche gli schemi sono infiniti.
La mostra di Roma mutua il titolo da una sua opera: Moltiplicare dimezzando. Lui stesso si era moltiplicato, raddoppiandosi nel nome ( Alighiero e Boetti) e nell’immagine: il celebre fotomontaggio de iGemelli in cui Alighiero tiene per mano Boetti, che è la tappa finale dell’esposizione. Quei due fratelli sapevano che avrebbero potuto essere, anzi erano, molti di più.