Massimiliano Panarari
L’egemonia culturale
Un camaleontismo genetico. E un’ambiguità strutturale. Sono questi i poli (molto ravvicinati) fra cui oscilla la destra-destra al governo. Così, mentre divampa lo scontro intorno al Museo della Liberazione di via Tasso con il mancato rinnovo dell’incarico del presidente e, al medesimo tempo, nessuna nomina di un nuovo cda da parte del Ministero della Cultura, lo stesso Gennaro Sangiuliano lancia la proposta – in sintonia col gruppo consiliare romano del Pd – di collocare una targa dedicata ad Antonio Gramsci presso quella clinica Quisisana dove, sorvegliato a vista dalla polizia del regime, il grande intellettuale si spense il 27 aprile del 1937.
Le «relazioni pericolose», verrebbe da dire con il titolo del romanzo di Choderlos de Laclos. E, in effetti, c’è del “libertinaggio” culturale (e un’evidente spregiudicatezza) nell’annessione che la destra erede del Msi persegue non da oggi nei confronti del pensatore comunista e antifascista ucciso dalla lunga detenzione e dalle vessazioni subite nelle carceri mussoliniane. Un’operazione spericolata e anche, innegabilmente, il tributo di un omaggio, ancorché finalizzato a supportare un disegno sintetizzabile attraverso queste dichiarazioni del presidente della commissione Cultura della Camera Federico Mollicone: «Da sempre sosteniamo la necessità di un percorso di sintesi nazionale nell’ambito culturale, e Gramsci è stata una delle personalità più influenti sulla politica e sulla filosofia nel Novecento. Costruiremo un immaginario realmente comunitario». Dove immaginario è la parola chiave: un po’ un Gramsci “immaginario” (e a uso e consumo) e un po’ – e soprattutto – un lavoro indirizzato all’occupazione dell’immaginario collettivo (largamente lasciato sguarnito dalla sinistra). All’insegna di un progetto di politica culturale a suo modo “ecumenico”, volto – e qui si ritrova l’aspetto essenziale del «gramscismo di destra» – a produrre egemonia, la formula magica che si sente citare a ogni piè sospinto dalle parti di FdI. Una maniera per scrollarsi di dosso quella sindrome di minorità che l’universo postmissino si porta dietro da sempre, e un tassello di quel percorso di ridefinizione ideologica che va alla ricerca di apporti di vario genere pur di non mettere in discussione il nocciolo identitario (molto nero) dell’elettorato che ha accompagnato fedelmente le metamorfosi della destra-destra e non accetterebbe mai un suo approdo autenticamente liberale. Ancor più in questo periodo in cui Giorgia Meloni, assai incline al principio del «nessun nemico a destra», risulta ossessionata dalla competizione con l’ipersovranista Lega salviniana. Un contesto in cui il sincretismo si rivela, appunto, metodo, sdoganato anche da quella sospensione del principio di non contraddizione che è al cuore dei tanti «paradossi postmoderni» della politica contemporanea (specie di quella di matrice populista).
E, dunque, da qualche decennio a questa parte, l’opera gramsciana è diventata un ideale terreno di appropriazione – non di rado indebita, come si diceva, perché se la cultura vive necessariamente di contaminazioni, alcune di esse si configurano come pure forzature. Un Gramsci pret-à-porter (e postmodernizzato, suo malgrado), riconfigurato dal «taglia e cuci» e dal bricolage che possano risultare più soddisfacenti per gli obiettivi delle varie riletture a cui è stato sottoposto. Transitato pure lui – come già avvenuto per foucaultismo e post-strutturalismo – per il viaggio di andata e ritorno dagli Stati Uniti dove, a sinistra, è diventato il Gramsci (no) global, postcolonial e padre fondatore della cultural theory. Ma dove è stato pure intercettato dall’alt-right e da Steve Bannon, e riconvertito in un vessillo per combattere le guerre culturali della rivolta populista contro le élites progressiste. Gramscismo di destra e revisionismo, come quelli originari di Alain de Benoist, da cui tutto ha preso praticamente le mosse. Ovvero l’ideologo della Nouvelle Droite, il teorico di un «contro-potere culturale» e il riferimento intellettuale, insieme allo storico tradizionalista (e reduce della guerra d’Algeria) Dominique Venner, di quella galassia ultranazionalista francese che, tra gli anni Sessanta e i Sessanta, diede vita al gramscismo (e al leninismo) «di destra». La prima delle ibridazioni che avrebbero condotto in seguito a orientamenti come il rossobrunismo, che dipinge il fascismo come una sorta di declinazione del socialismo avverso al materialismo e al cosmopolitismo (e che affonda le sue radici nel nazionalbolscevismo). Venendo all’Italia berlusconiana, già nelle tesi congressuali di Fiuggi che accompagnarono la nascita, nel 1995, di Alleanza nazionale (come ricorda Paolo Macry ne La destra italiana, Laterza), si delineava un pantheon che da Dante e Machiavelli, passando per Rosmini, Mazzini, Corradini, Croce e Gentile, arrivava giustappunto fino al filosofo fondatore del Partito comunista d’Italia.
Letto davvero o meno, Gramsci viene così arruolato a forza nella battaglia dell’egemonia che, intrisa di un certo tasso di vittimismo nei confronti di sedicenti forze soverchianti (e delle incessanti manovre dei “poteri forti”), converte il nazionalpopolare in nazionalpopulista. Del resto, come ha scritto uno studioso eminente quale Alessandro Campi, un ventennio di fascismo e mezzo secolo di postfascismo hanno impedito in Italia la nascita di una cultura politica compiuta di destra. E lo “scippo” e il “furto con destrezza” di Gramsci si spiegano, decisamente, anche così.