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25 Febbraio 2023Il dibattito che si sta sviluppando dopo la sconfitta alle elezioni è positivo, ma si devono rimettere al centro i contenuti, non basta parlare di nomi. Il ritardo più grave riguarda l’analisi dei cambiamenti. Intervista a Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil
Tania Scacchetti fa parte della segreteria nazionale della Cgil dal 2017. Responsabile per il gruppo dirigente di Corso d’Italia delle politiche del lavoro, è esperta delle trasformazioni e della contrattazione sindacale, che sta cambiando con i processi di digitalizzazione. Le abbiamo chiesto un giudizio sul dibattito politico in corso, anche in vista del Congresso di Rimini della Cgil.
Scacchetti, negli ultimi tempi, soprattutto dopo la vittoria delle destre alle ultime elezioni politiche e regionali, si è riaperto il dibattito sul futuro della sinistra. In particolare, la crisi ha investito il Pd, che si appresta a cambiare il gruppo dirigente. Qual è la tua valutazione?
Prima di ogni cosa, penso che questa ripresa di discussione sia un fatto positivo. Se riparte un dibattito vero sul futuro è una buona notizia. È anche evidente che la crisi non riguarda solo il Pd, ma si manifesta come una crisi generale della sinistra, soprattutto per quanto riguarda i ritardi nell’aggiornamento della interpretazione del mondo in cui viviamo. Per questo oggi servono risposte, è urgente una nuova capacità di lettura della realtà per elaborare risposte politiche all’altezza delle trasformazioni. Risposte ai bisogni e alle domande che arrivano da una grande massa di persone. Devo dire, però, che fino a oggi più che parlare di contenuti si è parlato di nomi. Si tratta invece di individuare delle questioni su cui concentrarsi. E io le vedo in particolare in tre ambiti: ripensare la centralità del lavoro e le sue condizioni oggettive, affrontare con idee nuove i problemi della crisi climatica e della gestione delle risorse naturali, affrontare il problema dei problemi: l’aumento esponenziale delle diseguaglianze. Su queste cose è necessario elaborare un pensiero nuovo e alcuni spunti positivi già si intravedono.
All’interno del percorso di ripensamento, anche teorico, è riemerso da parte di alcuni il problema del superamento dei paradigmi tradizionali della sinistra, a partire della lotta di classe. Cosa ne pensi?
Credo sia evidente l’esistenza di una profonda trasformazione, che non ha però annullato le polarità. Ovviamente, queste non si manifestano come nell’Ottocento e nel secolo scorso, ma le polarità continuano a esserci: basti pensare alla comparsa di forme di sfruttamento che sembravano superate per sempre. Non esiste, tuttavia, una riconoscibilità collettiva di questo. Chi vive queste condizioni non si riconosce quasi mai in un collettivo, in una comunità di interessi. Ha vinto (o meglio rischia di vincere) la logica della frammentazione e delle tendenze corporative e individualiste. I grandi temi del lavoro non sono affatto superati, ma assumono oggi forme diverse dal passato. Il lavoro è cambiato, e le polarizzazioni non si manifestano più in grandi blocchi contrapposti, ma hanno una loro specificità. Si tratta quindi di fare emergere queste contraddizioni, che si pensava di superare offrendo maggiori opportunità al singolo individuo. Più che a processi di liberazione delle persone, assistiamo oggi a una esplosione delle diseguaglianze. In queste condizioni si teorizza una libertà che non esiste.
Una delle questioni ricorrenti riguarda la natura del lavoro. Ci sono studiosi che danno per superata la contrapposizione tra lavoro e capitale. Rifkin aveva parlato di fine del lavoro venti anni fa, ma nel frattempo nel mondo le forze di lavoro sono quadruplicate. È solo questione di numeri?
Abbiamo letto di recente un articolo di Laura Pennacchi che critica questa nuova ideologia della morte del lavoro. Caso mai, se si vanno a vedere bene le cose, scopriremmo che la contraddizione-contrapposizione tra lavoro e capitale, ha raggiunto uno dei picchi massimi. Lo scontro è stato camuffato dietro le apparenze, ma è diventato estremo: il lavoro è stato ridotto a una delle tante variabili del sistema economico, e non certo la più importante. Quindi non si tratta solo di una questione di numeri (le classi lavoratrici che diventano sempre più numerose), ma di nuova soggettività. Si tratta di ridare valore al lavoro per riprendere un processo di liberazione delle persone. Non si tratta di tornare agli schemi dell’Ottocento, ma di cominciare a immaginare una nuova forma di “capitalismo etico”. Penso alle questioni della redistribuzione della ricchezza, all’uso civile dei beni comuni, alla valorizzazione della dignità delle persone. Molte teorie sociologiche non tengono conto del fatto principale: lo scontro tra interessi (chiamiamoli come ci pare) è stato vinto (per ora) dal capitale.
Teorie sociologiche a parte, è evidente che i problemi assumono oggi forme diverse dal passato (la mondializzazione delle produzioni, la precarizzazione generalizzata e perfino la ricomparsa di forme di vero e proprio schiavismo). Come si deve affrontare la questione lavoro? E che peso hanno i processi di innovazione tecnologica? Si sostiene, per esempio, che l’intelligenza artificiale scardinerà tutto, modificando ogni paradigma di riferimento. Che ne pensi?
Questo è davvero il tema centrale. I processi di automazione, più che cancellare il lavoro, lo stanno trasformando radicalmente. Sarà la questione dei prossimi anni. Ma vediamo che insieme alla grande innovazione ricompaiono appunto antiche forme para-schiavistiche, contemporanee a forme di grandi opportunità. Tutto è in trasformazione, e la nuova realtà ci pone grandi quesiti anche etici, come noi denunciamo da anni a proposito dello strapotere degli algoritmi. Su questo la Cgil ha organizzato una conferenza di programma, e ha avviato da qualche anno un grande studio all’insegna dello slogan “conoscere per governare la transizione”, contrattare l’algoritmo, gestire tutte le trasformazioni e comunque orientare l’azione umana. Le tecnologie, come sappiamo, non sono un fattore neutrale. Ed è evidente la pervasività del controllo che toglie ruolo al lavoro, alla presenza umana. Si tratta di una grande sfida, che noi stiamo affrontando senza cedere a visioni apocalittiche, ma neppure a facili semplificazioni. Il lavoro si trasforma, c’è una crescita di partecipazione e un grande bisogno di coinvolgimento da parte dei lavoratori. Ma in questi anni la Cgil non si è limitata a ragionare e a studiare. Con le nostre categorie professionali (in particolare in alcuni settori) abbiamo avviato esperienze nuove di contrattazione e di ripensamento della rappresentanza. Faccio qualche esempio solo per capirci, ma queste storie andrebbero raccontate. Abbiamo fatto esperienze di contrattazione con i rider; ci sono stati accordi importanti con Amazon per il controllo e la contrattazione degli algoritmi, un accordo importante sui sistemi di controllo a Cagliari nel call center; abbiamo sviluppato una contrattazione di secondo livello legata all’introduzione dell’automazione e all’uso dell’intelligenza artificiale; abbiamo messo in campo innovazioni contrattuali nei settori pubblici, soprattutto per quanto riguarda la digitalizzazione. La contrattazione, comunque, si sta misurando con i processi di automazione; ma è evidente che dobbiamo correre più veloci di prima e dobbiamo riferirci soprattutto ai quadri intermedi, medio-alti, laddove i processi si determinano, e non accontentarci di gestire solo le ricadute, una tattica che ci vedrebbe inevitabilmente sconfitti.
Legata ai processi di trasformazione, è sicuramente la questione della rappresentanza. Quali sono le novità e i problemi da risolvere per il sindacato? Il segretario Maurizio Landini ha stimolato spesso una riflessione sulla necessità di cambiare. Quali sono i ritardi da colmare?
La questione della rappresentanza, per noi che vogliamo continuare a essere un sindacato confederale (che è il contrario del modello corporativo) è essenziale. Il sindacato confederale ha l’ambizione di contribuire a cambiare la società e non solo di rappresentare gli interessi. Per fare questo abbiamo bisogno di intercettare mondi e generazioni, che sono meno forti e frammentati: il lavoro parasubordinato, il lavoro autonomo, per esempio. Abbiamo cioè la necessità di connetterci a fasce di lavoratori che non rappresentavamo e hanno linguaggi diversi dai nostri. Mettere in campo un processo di inclusione e di contaminazione. Pensiamo a un nuovo proselitismo, per poter portare questi soggetti all’interno di un’azione confederale, parlando delle loro condizioni, ma non solo. Vogliamo offrire un progetto confederale, per sconfiggere la tendenza all’autorappresentazione, al fare ognuno per sé. Accanto a questo abbiamo un problema di regole. Per questo, chiediamo da anni una legge nazionale sulla rappresentanza. Si tratta di stabilire chi è veramente titolato a rappresentare i lavoratori, avere la garanzia di una rappresentanza certificata ed effettiva. Oggi invece passa una logica opposta: ognuno si può intestare il diritto a rappresentare gli altri senza alcuna verifica e misurazione. Una questione che riguarda da vicino anche la politica.
Nella storia della sinistra, il rapporto tra sindacato e partito è sempre stato fondamentale. Il vecchio modulo della “cinghia di trasmissione” è superato da tempo, mentre negli ultimi anni ci sono stati perfino scontri politici tra Cgil e partiti della sinistra, a cominciare dall’ex Pci. Il sindacato ha sempre detto che non si vuole sostituire alla politica, ma i partiti di sinistra nel frattempo sembrano scomparsi dalla scena. Come vedi la situazione? Che cosa bisognerebbe fare?
Per tanti anni la storia della Cgil è stata collegata a quella di alcuni partiti della sinistra, penso soprattutto al Pci e al Psi. C’erano valori e principi condivisi, ma anche modalità organizzative, una consonanza, che poi si è rotta nel tempo. La politica è diventata molto più liquida. Oggi la relazione tra sindacato e politica è ancora essenziale, ma forse non deve più essere una relazione tra sindacati e singoli partiti. La forza dell’organizzazione deve invece pesare in quel tentativo di far riprendere alla politica e ai partiti una loro centralità, basata sul lavoro e le scelte sociali. Per noi, è questo il contributo che può dare la Cgil, più che schierarsi con uno o l’altro dei partiti o dei candidati.
Uno dei temi in ballo, che riguarda il futuro di noi tutti, è il coinvolgimento dei giovani. Come si vive nella Cgil questo problema? Nel prossimo Congresso di Rimini se ne discuterà, magari a proposito della questione ambientale e del futuro del pianeta?
Tre cose schematiche per risponderti. La prima: è palese il ritardo nel rapporto con i giovani, ma dobbiamo dire che è la società nel suo complesso a essere in ritardo. Non è solo un problema del sindacato. I giovani sono diventati meno attraenti e, viceversa, per loro sono diventati meno attraenti la politica e l’impegno. Per quanto ci riguarda, però, registriamo comunque una relazione con i giovani, e lo vediamo da varie forme di partecipazione giovanile all’interno del sindacato. Sono esperienze ancora poco diffuse, ma ci sono. La seconda: dovremmo dare più protagonismo ai giovani, ma in un modo nuovo, senza paternalismi di vecchio stampo. Permettere loro di costruirsi la strada, offrire un punto di riferimento e di stimolo, senza pretendere di inglobarli. Terzo: siamo molto contenti del fatto che i giovani abbiano ripreso voce sui temi sociali, sui diritti civili, sulla difesa dell’ambiente, ma vediamo la stessa cosa sui temi del lavoro? Bisogna capire il nuovo rapporto dei giovani con il lavoro, capire le loro letture, magari diverse dalle nostre. Ci sono però segnali importanti anche da questo punto di vista, come abbiamo visto per esempio con il fenomeno delle dimissioni. Non si accetta più “la qualunque”. E questo è un segnale che dovrà essere studiato meglio, ma comunque è positivo.
Ultima domanda da cento punti. A sinistra, si è passati dall’ideologia della classe operaia che salverà il mondo al superamento di ogni tipo di conflitto, della serie “siamo tutti sulla stessa barca”. Per quanto riguarda il futuro del pianeta (e perfino il bisogno di pace), questo è sicuramente vero, ma le diseguaglianze nelle società capitalistiche nel frattempo aumentano e le varie forme di solidarietà sono frantumate. Vedi ancora possibile un processo di liberazione universale? Si può tentare di declinare una nuova idea di socialismo?
Effettivamente questa domanda meriterebbe un approfondimento a parte, perché è di quelle pesanti. Dico solo semplicemente che trovo interessanti tutte quelle letture che cercano di superare gli schemi classici. La società è cambiata molto, e noi dobbiamo capire in quale direzione. Prima, esistevano alcune funzioni che sembravano stabili e inamovibili: il ruolo delle istituzioni, il ruolo delle classi intermedie… Oggi tutto è in movimento ed è importante ripartire da alcune suggestioni. Una di queste riguarda, sicuramente, i processi di liberazione da un lavoro non soddisfacente. Una società che rivede i propri valori. Ci sono in atto tentativi affascinanti da esplorare, ma senza rifuggire dall’ideologia, perché per cambiare davvero è necessario recuperare un sogno, un’utopia. Abbiamo bisogno e voglia di ricominciare a costruire un orizzonte, immaginare una società più giusta. E questo non si potrà fare se continuiamo a cercare di eliminare il conflitto e la rivendicazione. Ad abbandonare l’ideologia, o comunque un pensiero critico per il cambiamento, rischiamo di rimanere vittime della nuova ideologia del “siamo tutti sulla stessa barca”. Basta guardare il mondo per quello che è per capire che le cose non stanno come vorrebbero farci credere.