ROMA — Avrebbe dovuto essere una tavola rotonda, per confermare le radici del Pd: l’Ulivo prodiano e il Lingotto di Veltroni. Ma dai toni è sembrata più una riunione di curatori fallimentari. Al Nazareno, sala Sassoli, le parole risuonate di più ieri mattina sono state «rischiamo la liquidazione ». Lo ha detto la capogruppo alla Camera Debora Serracchiani, lo ha ripetuto l’aspirante leader Paola De Micheli. L’altro candidato segretario, Stefano Bonaccini, ha parlato di pericolo «irrilevanza, come è avvenuto in altri paesi europei». Il riferimento è chiaro: il Pasok greco e i socialisti francesi, spariti dai radar della politica che conta.
Al primo dibattito fra i tre candidati alla segreteria post-Letta, gli elefanti nella stanza erano due. Le euro- mazzette del Qatar e l’ultimo sondaggio che ha fatto scivolare il Pd sotto quota 15%, meno della metà dei consensi rispetto a FdI e quasi tre lunghezze di distanza dai 5 Stelle. Riavvolgendo il nastro ancora più indietro, il conto è perfino più salato, come ha ricordato Walter Verini, l’animatore della discussione insieme a Stefano Ceccanti e Pina Picierno: «Sette milioni e mezzo di voti persi dal 2008». Una speranza però c’è, sostiene il tesoriere dem, storico braccio destro di Veltroni. «La cornice da cui ripartire deve essere l’Ulivo del 1996 e il Lingotto del 2007. Il quadro che ci starà dentro lo decideranno le primarie».
Si è parlato molto di identità, ieri. Partito o movimento. Ritorno ai Ds o conferma dell’«amalgama» nata quindici anni fa, «malriuscita», disse poi D’Alema. Per Madia «se il tentativo è rifare i Ds, è un errore storico e poi un errore di analisi». Sulla stessa lunghezza d’onda Bonaccini. Che ha aperto al cambio del nome, «nessun tabu, siamo una forza laburista », respingendo però «rigurgiti identitari il cui sbocco appare più un ritorno alle casematte precedenti ». Il governatore emiliano non nasconde le tribolazioni interne. Di più: «Il Pd – ammette – vede insidiata la sua stessa funzione di perno di un’alternativa di centrosinistra di governo». Per la prima volta, aggiunge, «ci sono nel campo delle opposizioni alternative competitive che possono rendere irrilevante la funzione stessa del Pd». La sorte del Pasok e del Parti Socialiste, appunto. Bonaccini ha difeso l’autonomia, «non regaliamola alla destra» e soprattutto ha difeso la forma partito: «Non siamo un movimento». L’opposto di quanto ha sostenuto poco dopo Elly Schlein, fresca di semi-endorsement di Goffredo Bettini («C’è consonanza con le prime idee di Elly, ma non metto timbri»): la deputata ex Occupy Pd si è augurata una «forza aperta, tra partito e movimento», perché «il mondo è cambiato e dobbiamo cambiare anche noi». Servirebbe dunque, per Schlein, «un partito umile, ma non siamo qui per fare una resa di conti identitaria». De Micheli se l’è presa invece con «l’unanimismo finto delle nostre discussioni, la percezione è che il nostro obiettivo sia non cambiare mai».
L’euroscandalo del Qatar è stato citato solo da Picierno («va espulso chi ha provato a disonorarci»), fino a quando non è intervenuto Enrico Letta, collegato da casa, causa influenza: «Siamo gente per bene, che vuole pulizia». Il segretario uscente è consapevole che al partito serva più di un tagliando, a questo giro. È necessario «un ricambio», scandisce, «il gruppo dirigente che arriverà farà meglio di me». Ma è convinto che l’operazione costituente, con i suoi tempi, vada tutelata. «E non caricaturizzata ». Proprio la data delle primarie accende la coda del dibattito. De Micheli spinge per anticipare, rispetto al 19 febbraio. Lo stesso fa intuire Bonaccini: «Gli italiani non capiscono perché ci vogliono mesi». Schlein non si esprime, ma alcuni parlamentari che l’appoggiano sperano, al contrario, in un rinvio, «per non interferire con le Regionali del 12 febbraio».