di DIARIO DI TRADUZIONE
Simona Vinci
La traduzione è una sorta di guerra psicologica tra due (a volte più di due) individui separati da lingue madri diverse e da uno spazio geografico spesso molto differente e distante, figuriamoci quando l’autrice o l’autore che stai traducendo è defunto. Non sai le scrittrici e gli scrittori di quanti dispetti e trabocchetti possano disseminare i testi, a futuro scorno dei loro possibili traduttori, finché non li devi fronteggiare tra le righe. E appunto, se defunti, non puoi chiedere un indirizzo e-mail al loro agente, armarti di un coraggio da leone e scrivergli una lettera riportando e sottolineando le frasi che ti generano insicurezza o vera e propria disperazione. Non puoi pregarli di avere un contatto telefonico di almeno due minuti, una prece da oltreoceano a un orario assurdo, una call su Skype o Zoom per farti spiegare il motivo esatto di quella certa scena che non sai ricollocare nel contesto del discorso e che può apparirti fuorviante o macchinosa. Devi arrangiarti come puoi. E sei sola, sola con gli spiriti da evocare. Sola con il testo in lingua originale e la contezza o meno dei libri di riferimento che magari si allacciano a quel particolare racconto, sola a cercare su Internet dettagli anche minuscoli di un tempo che fu e non è più – tra gli anni Trenta e i Sessanta del Novecento, nel caso di Jackson e dei suoi racconti – dove le marche di detersivi contengono i nomi in codice di elementi chimici che magari oggi non si usano più e i giri di frase sono conditi da giochi di parole in uno slang che non è possibile trovare in alcun dizionario consultabile in rete. Sei solo, traduttore, sei sola, traduttrice, e a volte tieni stretto tra le dita un ciondolo d’argento con un pentacolo perché un incantesimo si compia e tu possa accedere alla visione della retta parola, della retta costruzione sintattica e della retta comprensione, prima tua e poi dei lettori.
Amavo follemente Shirley Jackson prima di tradurla, e anche se i suoi romanzi e i suoi racconti mi terrorizzavano, non avevo paura di lei. Adesso è cambiato tutto, continuo ad amarla follemente, ma ho nascosto tutte le sue fotografie – che prima tenevo in bella vista – dietro la fila dei suoi libri che possiedo, tradotti e in originale, perché se mi capita di incontrare il suo sguardo sardonico da gatta pazza, la sigaretta fumante in mano e talvolta il bicchiere di scotch con ghiaccio in bella vista, mi spavento. Ho paura, perché dopo aver dedicato un ragguardevole periodo di tempo a tradurre i suoi racconti, ogni volta che ci penso mi viene l’ansia di aver compiuto errori imperdonabili, di non aver colto certe citazioni segrete, certe sottigliezze delle quali lei era solita disseminare i suoi testi, di aver falsato la sua prosa elegante e classica, sempre iniettata con un fluido di contrasto fatto di ironia e sarcasmo amaro talvolta appena percepibili e il pensiero che mi viene è che lei si vendicherà, prima o poi. Perché questo che quasi certamente, io credo, fanno le scrittrici e gli scrittori morti con le traduttrici e i traduttori che sbagliano: si vendicano nei modi più atroci. Lo sguardo di Jackson, la sua postura nella vita e di conseguenza la sua scrittura non sono mai innocue: non esiste frase che non ti costringa, come traduttore, a drizzare le antenne e a coglierne ogni possibile implicazione.
Ho cominciato a tradurre i suoi racconti per me stessa perché non erano mai stati pubblicati in italiano. Il mio agente, Roberto Santachiara, che detiene i diritti di Jackson in Italia, me ne aveva fatta avere una copia, sapendo quanto mi piacesse e mi aveva buttato lì l’idea che forse, chissà. E quando, per puro desiderio ho cominciato a tradurre la prima frase, sono precipitata in una spirale perversa che metteva insieme amore e terrore. Il primo racconto che ricordo di aver tradotto è contenuto nella raccolta La luna di miele di Mrs Smith e si intitola La storia che ci raccontavamo ed è stato lì che ho capito in che guaio volevo assolutamente, perdutamente, infilarmi: tra il mistero di storie sussurrate a mezza voce, le parole intagliate nel cristallo e gli incubi di menti femminili sempre in bilico tra desiderio di vita e pulsione di morte, frammentate in mille personalità che convivono nello stesso corpo e di quel corpo fanno il loro campo di battaglia, a volte arrendevole e materno, altre ribelle e incline all’idea della sparizione, della scomparsa. C’era un quadro appeso alla parete della stanzetta nella quale Y, dopo la morte del marito, ospita a casa sua Io, la voce narrante. E il quadro ritrae la casa stessa nella quale le due protagoniste sono contenute: «guarda- dice Y-,si riescono quasi a vedere le finestre di questa stanza, risale a prima che il nonno di mio marito la ristrutturasse, ed è per questo che l’ala nuova non c’è». Ed è qui che la seconda insidia mi si presentò a fronte della considerazione che, prima, nella casa non fossero presenti le… the plumbing: impianto idraulico? Tubi? Tubature? Sì, ecco! Sono scelte del traduttore, queste, che cambiano però la percezione del lettore. Le tubature fanno pensare a un sistema venoso che percorre l’organismo della casa, pensate a quanti lavori di muratura e scavo occorrono per infilare dei tubi in una casa che era stata pensata per non avercelo, un impianto idraulico.
La prima insidia, come avrete notato era che le due protagoniste si chiamano I and Y, il gioco è doppio, potrebbero essere IO e TE, oppure IO e IO e potrebbe anche trattarsi di un gioco di specchi in cui il personaggio è soltanto uno, la voce narrante. Vertiginoso davvero, anche perché I and Y precipitano letteralmente dentro il quadro che raffigura la casa e lì rimangono imprigionate, in un altro tempo, un tempo nel quale ancora non esistono tubature, e chissà se qualcuno arriverà mai in quella stanza, nel presente dal quale erano cadute e saprà liberarle e riportarle là. Ed è così che ho preso il coraggio a due mani e mi sono fatta avanti apertamente per ottenere questa traduzione, la volevo a tutti i costi: volevo stare con Shirley, imparare la ricetta magica, scoprire i suoi trucchi, spiarla, vivere dentro la sua testa, guardare con i suoi occhi, sentire quello che sentiva lei, attraverso di me. È stato faticoso, perché non ammetterlo? Esaltante, folle, una sfida alla quale sono felice di essermi sottoposta e per la quale non smetterò mai di ringraziare chi me l’ha consentita.
La luna di miele di Mrs Smith del 2020 e ora Un giorno come un altro con in copertina uno splendido dipinto di Grant Wood, La cavalcata di mezzanotte di Paul Revere, che rappresenta un idilliaco paesino adagiato tra le colline, sono due volumi separati ma un’unica opera, concepita dai figli ed eredi di Shirley Jackson che hanno cercato – dopo un ritrovamento inaspettato e degno di un racconto di Shirley stessa, di vecchi manoscritti e dattiloscritti che credevano perduti – di raccogliere finalmente in un’opera completa ovvero Just an Ordinary Day, uscito per Penguin Random House, tutti i racconti della madre, divisi in due parti: inediti e pubblicati sulle varie riviste con le quali Jackson collaborava, dal New York Times ai femminili. Possedere questa coppia di volumi significa per la lettrice e il lettore italiano appassionato di Jackson, avere finalmente la possibilità di entrare nel laboratorio di una scrittrice eccezionale che mescola con sapienza e genialità generi diversi, ironia e tragedia, sguardo politico sociale e una visione ultraterrena da strega preveggente. È proprio dai racconti che spesso si possono comprendere i motivi ricorrenti di un autore e il Novecento è stato generoso in questo perché era un’abitudine consolidata quella di inserire nei magazines e nei quotidiani dei brani di narrativa commissionati a vari autori i quali spesso sfruttavano la forma racconto proprio come laboratorio nel quale sperimentare e mettere alla prova idee, germi che forse sarebbero poi proliferati fino a raggiungere le dimensioni giuste per diventare romanzi.
Un giorno come un altro contiene 22 racconti e un epilogo esilarante nel quale Jackson si mette alla berlina come pochissime altre autrici (figuriamoci autori!) avrebbero saputo fare: lei, pubblicata da uno dei più grandi editori americani è in partenza per New York e riceve una telefonata da un’anziana signora che redige la cronaca di quartiere sul giornalino locale; Jackson, tutta tronfia, si prepara a raccontarle del romanzo in uscita e a dare tutte le possibili indicazioni a riguardo, ma la telefonata è un susseguirsi di domande stupide su inezie e pettegolezzi «vuole che le racconti qualcosa del mio libro?» dice Jackson a un certo punto, stizzita, e la voce all’altro capo risponde «Senz’altro, mi chiami ogni volta che ha qualche piccola notizia per me, mi raccomando». Ecco, ogni volta che sento squillare il telefono io ho invece paura che sia Shirley, che mi chiama per chiedermi conto di una drammatica, tragica, macroscopica inezia quale può esserlo un errore di traduzione.