Il documento Verso ottobre 2024, prodotto dal Consiglio ordinario del Sinodo dei vescovi, ha sollecitato il contributo di teologi, canonisti ed esperti delle scienze umane e sociali, rinviando ai contenuti della Relazione di sintesi della prima sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. Qui, al n. 15, viene posta l’attenzione sulla questione del rapporto tra amore e verità e sulle molteplici conseguenze che questo rapporto può avere su tante questioni etiche controverse.
Volendo delineare un piccolo contributo al discernimento della questione, è saggio considerare quanto le stesse Scritture, nel Libro dei Salmi, suggeriscono sul rapporto tra amore e verità (citato nello stesso documento): «Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11-12).
Un asse della rivelazione cristiana
Il binomio verità-amore è un asse portante della rivelazione cristologica, contiene un appello alla responsabilità di ciascuno e spesso appare come una sfida lanciata dalle molteplici controversie etiche che, senza sosta, si manifestano nella ferialità della vita quotidiana personale e collettiva.
Spesso nella mentalità più diffusa i due termini sono considerati antitetici, come se il dinamismo e la vitalità dell’amore fossero diametralmente opposti alla staticità monolitica della verità.
A questo proposito risultano significativi alcuni passi della Lettera a chi non crede di papa Francesco (4 settembre 2013) in risposta a E. Scalfari: «Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».
Nel passato ritenuti avversari
Invece l’opposizione pregiudiziale tra i due termini del binomio, riscontrabile nella comunicazione e nella mentalità più diffusa, sembra che appartenga anche a vasti settori del pensiero ecclesiale, dove compare un debito ancora eccessivo verso spessori simbolici e categorie ormai inattuali rispetto alle consapevolezze presenti e diffuse.
In particolare questa impostazione appare debitrice di una concezione di natura umana segnata da biologismo e intellettualismo, tipica della teologia morale post-tridentina, che supponeva l’impianto teorico di un’antropologia essenzialista dalla quale dedurre la norma, operazione esemplificata dall’assioma agere sequitur esse (l’agire segue l’essere).
Perciò si manifesta l’opportunità di un ripensamento delle matrici fondamentali della teologia morale, per superare una prospettiva metafisica che non considera adeguatamente il focus antropologico primario, cioè la struttura originariamente storica e relazionale dell’umano.
Ripensare il concetto di natura umana
Questa prospettiva manca di una ricerca robusta di sviluppi diversi rispetto alla visione tradizionalmente oggettivistica e naturalistica dell’umano, identificabile anche con l’espressione «antropologia delle facoltà», ampiamente alimentata dalla tradizione ricevuta, ma probabilmente ormai divenuta inattuale.
Infatti gli abitanti del villaggio globale e digitale, bisognosi di un’attuazione di sé in un ampio orizzonte pieno di buone pratiche narrative e transitive, hanno raggiunto nuove consapevolezze, e questo chiede di ripensare il concetto di natura umana secondo un nuovo paradigma, che ne illustri il debito rispetto all’esperienza e alla storia, e in cui la dimensione ontologica sia declinata nella direzione fenomenologica ed ermeneutica, in modo da generare un modello in cui la natura è intesa in termini di passività originaria (spazio-tempo-mondo, nascita, corpo, socialità, cultura) che in-forma la coscienza morale.
La natura è legata all’esperienza e alla storia
Tale paradigma prospetta l’accesso all’universale specificamente attraverso il particolare: l’universale antropologico è visibile sempre in forme storiche concrete, pratiche, in rapporto costitutivo con le esperienze primarie che «affettano» la coscienza.
Questo di conseguenza indica la necessità di uno sviluppo umano compiuto, perché la possibilità stessa che l’Annuncio evangelico dispieghi in pieno le sue energie di significato e di valore è strettamente legata al contenitore antropologico, a uno spazio cioè di plausibilità e di ragionevolezza pratica in cui si gioca il realismo della verità cristiana, visibile nel dinamismo delle forme dell’esperienza pratica.
Un’antropologia della libertà
Così viene tematizzata una più promettente «antropologia della libertà», radicata nella relazione biunivoca tra la dimensione antropologica e quella teologica definitivamente generata dall’Incarnazione, in grado di condurre a consapevolezza sensibile il darsi di Dio nella piena realizzazione della libertà umana, contribuendo così al superamento di una concezione oggettivistica del binomio amore-verità.
Luca Novara è docente di Filosofia e Teologia morale sociale presso l’ISSR «S. Metodio» di Siracusa e presso lo Studio teologico «S. Paolo» di Catania.