Il pacchetto di aiuti finalmente votato dal Congresso degli Stati Uniti salva temporaneamente le forze armate ucraine dal collasso, ma non è un game-changer: non elimina il pericolo di una sconfitta a medio termine. È sufficiente a irritare Putin (non a caso il suo vassallo Lukashenko ha nuovamente brandito la minaccia nucleare), ma non lo dissuade dal proseguire l’offensiva. Permette all’amministrazione Biden di fare la sua parte nel sostegno all’Ucraina sino alla fine dell’anno, per poi passare la staffetta agli europei nell’evenienza (tutt’altro che improbabile) di un ritorno di Trump al potere. Solo che l’industria degli armamenti europea non è in grado di tenere il passo con quella russa. La prospettiva di una sia pur ritardata vittoria della Russia e l’annessione di altre regioni ucraine ci impone di domandarci se questi sviluppi erano inevitabili, e quali errori politici e di previsione sono stati fatti.
Premesso che l’aggressione iniziata il 24 febbraio 2022 ha rappresentato una scandalosa violazione del diritto internazionale, e che l’impegno assunto da Mosca con il Memorandum di Budapest del 1994 sbarra la strada a qualsiasi tentativo di giustificazione politica, è difficile negare che l’Occidente abbia costantemente alimentato a partire dall’inizio di questo secolo il desiderio di rivalsa della Russia, pesantemente umiliata da Bush senior nel 1990.
Naturalmente è lecito ipotizzare che, presto o tardi, il revisionismo territoriale si sarebbe comunque manifestato, in particolare nei confronti delle regioni storicamente e culturalmente “russe” (Bielorussia e Ucraina orientale e meridionale) e dei nuovi Stati con consistenti minoranze russofone. Tuttavia esso poteva essere neutralizzato o mitigato dall’interesse a costruire un vero partenariato con l’Europa occidentale. Un partenariato economico, tecnologico e di sicurezza di fronte alla sfida del terrorismo di matrice islamica.
Non è stato lungimirante ricordare ai russi ad ogni piè sospinto che erano gli sconfitti della Guerra fredda, criminalizzarli perché mantenevano una insignificante base militare in Abkhazia e una in Transnistria (a costo di paralizzare i lavori dell’Osce), proclamare la superiorità morale di una presunta Alleanza delle Democrazie. Ma soprattutto estendere la Nato verso Est fino ai confini della Federazione Russa e promettere di includervi un giorno anche i suoi vicini meridionali, Ucraina e Georgia. Questo generava inevitabilmente un complesso di accerchiamento, anche se non costituiva una concreta minaccia strategica. Errori della strategia occidentale che – occorre ripeterlo? – non attenuano minimamente la condanna della Russia per l’invasione e i crimini di guerra commessi.
Mosca afferma oggi, senza alcun fondamento ma con un notevole successo presso l’opinione pubblica interna, che la sua “operazione speciale” è stata una mossa preventiva contro una imminente aggressione occidentale. Quello che da tempo chiama attentato alla sua “sicurezza” è in realtà una questione di status: la degradazione a Paese marginale, il rifiuto di un rapporto paritario da parte degli Stati Uniti, il diniego di una pur circoscritta sfera di influenza nell’area post-sovietica (il suo “estero vicino”). La diplomazia russa per molti anni si è lamentata dei double standards: agli americani e ai loro alleati era consentito attaccare la Serbia e in seguito (2008) imporre la completa secessione del Kossovo (ignorando le obiezioni di Mosca), o invadere l’Iraq sotto falso pretesto, mentre la limitata operazione militare russa in difesa della indipendenza di fatto della Ossezia del Sud e dell’Abkhazia (sempre 2008) veniva duramente condannata.
Putin, ma con lui la stragrande maggioranza della popolazione, ha reagito con un sussulto di orgoglio nazionalistico, una politica di grandeur che si è tradotta – al più tardi dal 2014 – in un programma di ammodernamento ed espansione delle capacità militari, favorito dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi. Programma per lo più sottovalutato dagli analisti e dai governi occidentali che continuavano a cullarsi nell’illusione del “dividendo della pace” (possibilità di spostare risorse dalla difesa ai consumi privati).
Nel 2014 l’“antagonizzazione” (si perdoni l’anglicismo) della Russia era ormai un fatto compiuto, non più reversibile. Ma non era inevitabile che sfociasse in una vera guerra (l’appoggio alle Repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk aveva piuttosto le caratteristiche di una covert operation). Nel corso dei dieci anni successivi una serie di ulteriori errori di valutazione e di strategia ha portato alla preoccupante situazione attuale.
Per anni l’Occidente ha ignorato non solo le implicazioni della politica di riarmo russa ma anche la preparazione psicologica ad avventure belliche
Per anni l’Occidente ha ignorato non solo le implicazioni della politica di riarmo russa ma anche la preparazione psicologica ad avventure belliche attraverso una sistematica promozione del patriottismo e del mito della “Grande guerra patriottica” (la Seconda guerra mondiale), compresa la strisciante riabilitazione della figura di Stalin. Putin andava disponendo le pedine per dare scacco matto a Kiev. Non prevedeva una guerra che durasse mesi o anni e costasse molti più morti che l’Afghanistan, ma si assumeva quel rischio: una volta partita l’operazione, un ritiro era inconcepibile.
Nell’autunno del 2021 gli Stati Uniti scoprirono i preparativi materiali per l’attacco nelle regioni limitrofe all’Ucraina, sfrontatamente negati da Mosca (un déja vu per chi ricorda l’ottobre 1962), mentre noi europei siamo rimasti fino all’ultimo increduli. Ed è bene ricordarlo quando si discute di possibili nuove aggressioni russe che possono apparire inverosimili.
Quando alla fine dell’anno il Cremlino offrì un ampio negoziato sulla sicurezza europea, cioè sugli assetti geopolitici, in cambio della pace, probabilmente il dado era tratto. Eppure sarebbe valsa la pena di tentare in extremis quella via diplomatica, con una più convincente disponibilità della Nato a fare sostanziali concessioni.
Una volta iniziata la guerra, i Paesi Nato hanno ceduto all’Ucraina armamenti in prevalenza vecchi, e non si sono affrettati a mobilitare le industrie belliche per ricostituire le proprie dotazioni, e tanto meno per fornire al Paese aggredito armi moderne in quantità sufficiente. Sia gli americani sia gli europei hanno a lungo lesinato all’Ucraina i sistemi d’arma più sofisticati e più potenti, vuoi per paura di irritare Putin e provocare un (assai poco probabile) ricorso ad armi nucleari, vuoi perché circolavano implausibili scenari di collasso della Russia e caos: secondo molti “esperti”, un pericolo peggiore della caduta di Kiev…
A posteriori, bisogna riconoscere che senza quelle remore la controffensiva ucraina del 2022 avrebbe avuto buone probabilità di riconquistare porzioni di territorio ben più consistenti e indurre Mosca a un armistizio, forse addirittura a un ritiro fino alle linee del 24 febbraio, in cambio della neutralità perpetua dell’Ucraina.
Nell’aprile 2022, a Istanbul, sembra che i negoziatori russi fossero disposti a una intesa del genere, il cui testo è stato rivelato dal quotidiano tedesco “Die Welt” il 26 aprile scorso. Prevedeva il ritiro dai territori occupati “eccetto parti delle regioni di Donetsk e Luhansk”, riservando i dettagli a un negoziato diretto fra Putin e Zelensky. Dunque non escludeva che la Russia si tenesse porzioni di territorio conquistate dopo il 24 febbraio, ma solo nel Donbass. Ciò significa che si sarebbe ritirata dalle regioni di Zaporijja Zaporižžja e Kherson. Il prezzo era la neutralità dell’Ucraina, con la conferma della rinuncia alle armi nucleari e con l’impegno a non ospitare basi o contingenti militari stranieri: un prezzo tutto sommato ragionevole.
A posteriori, il rifiuto ucraino è stata un’occasione mancata. E una pesante responsabilità degli anglo-americani se, come sembra, è Boris Johnson, piombato proprio in quei giorni a Kiev, ad aver raccomandato a Zelensky, anche a nome degli Stati Uniti, di bocciare il piano. Mentre è comprensibile che il presidente fosse riluttante a firmare la cessione di parti del territorio nazionale, toccava agli alleati far valere le ragioni del realismo, e non spingerlo a resistere a tutti i costi. Si sarebbero potute evitare parecchie decine, se non centinaia, di migliaia di perdite umane.
Oggi la Russia è molto più forte di allora, e l’Ucraina è allo stremo; le condizioni di armistizio rischiano pertanto di essere assai più pesanti
Oggi la Russia è molto più forte di allora, e l’Ucraina è allo stremo; le condizioni di armistizio rischiano pertanto di essere assai più pesanti. Se davvero Mosca, come ha accennato, fosse disposta a negoziare su quella base, ci troveremo di fronte a una nuova occasione da non sprecare. In tal caso lo sblocco delle forniture belliche americane sarebbe superato dalle trattative per il cessate il fuoco? No, sarà stato utile a rafforzare la posizione negoziale dell’Ucraina.
Tornando agli errori degli ultimi due anni: del tutto irrealistica, o forse volutamente fuorviante, è stata la pretesa di indebolire la Russia e indurla a più miti consigli attraverso le sanzioni, peraltro attentamente dosate. Lo sganciamento graduale (e tuttora non completo) dalle forniture energetiche russe – prima il carbone, poi il petrolio, più tardi il metano – è stato autolesionistico per gli europei, avendo fatto aumentare i prezzi e spinto Mosca ancor più nelle braccia di Pechino. Se ne sono avvantaggiati, oltre all’erario russo, i cinesi e gli indiani, che comprano il petrolio con un forte sconto (e, a quanto pare, ne riesportano una parte); e anche gli americani, interessati a venderci il loro gas naturale liquefatto.
Altrettanto velleitario il progetto di isolare la Russia internazionalmente: si è anzi involontariamente favorita la trasformazione dei Brics da una semplice sigla rappresentante un elenco di economie emergenti in una alleanza di Paesi insofferenti della arroganza occidentale, guidata dal binomio sino-russo. A questo contraltare del G7 hanno ora aderito non solo l’Iran alleato della Russia, ma anche i suoi avversari Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sinora considerati molto più vicini a Washington.
Si è anche sopravvalutata la disponibilità della Cina a fermare la Russia e mediare un armistizio. È vero che è l’unico attore in grado di esercitare una qualche influenza su Mosca, ma non ha interesse a farlo: la guerra contribuisce a spostare a suo favore l’equilibrio rispetto agli Stati Uniti e, più concretamente, riduce la capacità americana di proteggere Taiwan da un suo eventuale colpo di mano.
La più macroscopica sottovalutazione occidentale è quella che riguarda la resilienza dell’economia russa e la già accennata capacità di quel governo di potenziare in breve tempo la produzione bellica (integrandola con importazioni di armi da Iran, Corea del Nord e – almeno per quanto riguarda molti materiali, componenti e tecnologie – dalla Cina). Ciò mentre le industrie europee e americane promettono di sfornare quanto richiesto entro il… 2027(!).
Dobbiamo desumerne che i governi dei Paesi Nato propongono cinicamente ai valorosi ucraini di resistere, una volta esauriti gli aiuti militari ora decisi dal Congresso Usa, per tre anni? In mancanza della volontà politica e capacità industriale di assicurare all’Ucraina ulteriori forniture in quantità sufficienti, la sconfitta arriverà molto prima del 2027. E allora quei contratti tardivi serviranno piuttosto a colmare le lacune nelle dotazioni delle forze armate europee, solo in parte dovute a quanto tolto dai nostri depositi per aiutare Kiev.
In sintesi, siamo costretti a constatare che i mancati sforzi per prevenire il conflitto, e dopo il febbraio 2022 le esitazioni ad armare l’Ucraina in misura adeguata e i ritardi nel negoziare con le industrie il potenziamento della produzione hanno portato a una situazione critica difficilmente ribaltabile. Due anni abbondanti di guerra, lungi dal logorare la capacità offensiva della Russia come molti credevano, hanno stimolato una forte crescita della sua produzione di armi e tecnologie cyber e allo stesso tempo il suo revanscismo, creando una minaccia per il fianco orientale della Nato che prima non esisteva. E hanno cementato l’alleanza fra Russia e Cina, e minato la concordia in seno all’Ue e all’interno dei vari Paesi occidentali.
Evidenziare gli errori commessi da parte dello schieramento occidentale, che hanno per due decenni alimentato l’ostilità russa e in seguito consentito a Putin di raggiungere e consolidare la conquista del 20% del territorio ucraino, non significa affatto dare ragione ai fautori di una precipitosa capitolazione di Kiev. Al contrario, rimane essenziale rafforzare la capacità di resistenza dell’Ucraina nella speranza di indurre Mosca a negoziare un armistizio lungo la linea del fronte attuale, ed eventualmente poi un accordo di pace ispirato alla bozza dell’aprile 2022.
Se un anno fa l’obiettivo poteva essere quello di migliorare la posizione negoziale di Zelensky grazie a ipotetici successi della sua controffensiva e quindi ottenere il ritiro delle forze russe da buona parte delle regioni occupate, oggi si deve puntare a dissuadere la Russia dal tentativo di spingersi fino a Odessa e la Transnistria nel Sud e fino a Kharkiv nel Nord.
Qualora i Paesi Nato non riuscissero a impedirlo, non solo subirebbero una grave umiliazione ma si troverebbero presto di fronte a una nuova sfida: difficilmente Putin si priverebbe dell’opzione di cavalcare il suo successo minacciando uno dei Paesi baltici. Si possono ipotizzare attacchi limitati che, senza necessariamente tradursi in una guerra di conquista, servirebbero a mettere alla prova l’Alleanza, a minarne la coesione e la credibilità. Segnare altri punti nella partita con la Nato, più che il revisionismo territoriale, è l’obiettivo della prossima sfida.
L’Occidente, per evitare di venirsi a trovare di fronte al dilemma sulla applicazione dell’art. 5 del Patto Atlantico (mutua assistenza in caso di attacco), dovrebbe da un lato impedire il tracollo dell’esercito ucraino, dall’altro preparare il terreno a una stabilizzazione dei rapporti piuttosto che una esasperazione dei rancori. Ciò significa fra l’altro rinunciare al discutibile progetto, patrocinato da Washington, di incamerare le riserve della Russia depositate presso banche occidentali, soprattutto europee. Quel progetto, così come l’ammissione dell’Ucraina alla Nato o lo spostamento di armi nucleari in Polonia, deve rimanere una minaccia, il cui ritiro servirà da moneta negoziale. Se diventassero fatti compiuti, rimarrebbero pochi margini di trattativa e si innescherebbe una spirale di ritorsioni. Le nazionalizzazioni di aziende europee, anche italiane, sono una avvisaglia.