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12 Gennaio 2025di Federico Rampini
L’impatto della tragedia di Los Angeles supera perfino il bilancio già tremendo dei morti, della devastazione, dei danni umani, economici, ambientali.
Le vite perdute, le famiglie rovinate, i traumi personali, il paesaggio sconvolto: tutto questo accade in un luogo altamente simbolico. Hollywood è la «fabbrica di sogni» per eccellenza. È sempre stata anche una capitale culturale politicizzata: nella Seconda guerra mondiale le star partivano verso il fronte per tenere alto il morale delle truppe, più di recente attrici e attori, registi e produttori sono stati in prima linea nelle guerre ideologiche che hanno lacerato l’America. Fabbrica di miti, Hollywood è anche l’altro centro di potere della California — con la Silicon Valley — cioè dello Stato più ricco, più popoloso, più avanzato d’America. Una contraddizione sta proprio qui: opulenza e modernità sembrano terribilmente inadeguate di fronte a una catastrofe in parte naturale, in parte prodotta dall’uomo. I ripetuti fallimenti della California di fronte agli incendi (pochi anni fa era toccato alla Napa e Sonoma Valley, il «Chiantishire» a Nord di San Francisco) sono da affiancare a un’altra tragedia, quella degli homeless che continuano ad aumentare malgrado le enormi risorse finanziarie stanziate per loro.
La tentazione di politicizzare le fiamme di Los Angeles è irresistibile, a pochi giorni dall’insediamento di Donald Trump. La California è all’opposizione rispetto al 47esimo presidente; il suo governatore Gavin Newsom ha già cominciato una sua battaglia di «resistenza» innalzando una muraglia di leggi locali, in particolare sulla lotta al cambiamento climatico. Oltre ad essere il più grosso serbatoio di voti nazionale per il partito democratico, la California è un «santuario» che rifiuta di applicare le leggi federali sull’immigrazione, e come tale ha accolto flussi di clandestini molto superiori. È soprattutto — fin dagli anni Settanta — la roccaforte dell’ambientalismo americano. Ha le regole più avanzate per tagliare le emissioni carboniche. Ha stabilito che dal 2035 saranno fuori legge le auto a combustione. Non a caso la Tesla di Elon Musk nacque qui.
In tutti i sensi questa California è il modello di un’altra America, il contrario di quella trumpiana. La tragedia dell’incendio conferma e convalida questo modello, o al contrario lo fa vacillare e ne mette a nudo la fragilità interna? La tentazione di strumentalizzare gli incendi e i morti è irresistibile. Tanto più se è vero che Kamala Harris potrebbe candidarsi come governatrice della California l’anno prossimo. Su temi come l’ambiente e il clima, un governatore della California pesa quasi quanto un presidente degli Stati Uniti, perché fissa le regole sul mercato più grosso (ad esempio per le automobili), e le normative decise da questo Stato spesso vengono copiate da altre amministrazioni di sinistra in tutto il Paese.
Le polemiche sull’incendio hanno già imboccato una pericolosa traiettoria ideologica. La destra punta l’indice contro l’inefficienza del governo locale a cominciare dalla sindaca di Los Angeles: l’azione dei Vigili del fuoco non è immune da critiche; da ultimo, sono partite allerta sbagliate per l’evacuazione. La California malgrado il potere dei suoi ambientalisti non ha saputo disciplinare le sue utility elettriche, che hanno avuto responsabilità gravi (accertate in sede penale) in molti incendi passati. Certi squilibri ecologici locali hanno un secolo di storia alle spalle: nel film «Chinatown» di Polanski sullo sfondo ci sono le guerre per l’acqua che segnarono gli anni Trenta, gli appetiti per una risorsa scarsa contesa fra le comunità urbane gonfiate dall’immigrazione, e l’agrobusiness.
Da sinistra si risponde accusando Trump di negare l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico, che può avere contribuito a fenomeni di siccità e reso più infiammabili le foreste. Una polemica parallela investe il capitalismo assicurativo: molti residenti che hanno perso le proprie case di fronte all’avanzata delle fiamme, prima ancora avevano perso le polizze anti-incendio, abbandonati dalle compagnie che non volevano correre rischi.
Ad avvelenare il confronto contribuisce il fatto che Elon Musk è un «transfuga», ha parzialmente abbandonato la California accusando le autorità locali di intralciare le sue attività imprenditoriali, e ha trasferito il baricentro di alcune sue aziende in Texas (modello alternativo, con la Florida, di un’America governata da destra). Tutto ciò che avviene in California diventa il pretesto per uno scontro tra paradigmi.
Avendo vissuto a lungo in quella parte d’America, dove torno spesso perché mia figlia lì è docente universitaria di scienze ambientali, vedo però dei segnali più incoraggianti. San Francisco è da pochi giorni l’epicentro di un esperimento nuovo. Si è appena insediato un sindaco, democratico e di sinistra, che ha promesso di sanare alcune piaghe della città: il dilagare dei senzatetto, la criminalità diffusa, l’ecatombe di morti per overdose. Ha promesso che la sua «resistenza» a Trump sarà basata non sui dogmi ideologici ma sui risultati. È considerato l’esempio di una nuova leadership democratica, più attenta ai bisogni delle classi lavoratrici, capace di usare «buon senso comune» (sono parole sue) su problemi come la sicurezza e l’ordine pubblico. Un suo collaboratore usa l’etichetta di «progressista pragmatico». Ce ne sarà bisogno, quando le fiamme saranno state spente, per mettere insieme una strategia di prevenzione degli incendi che guardi a tutte le cause e a tutte le misure necessarie, senza escluderne a priori nessuna.