Modernist Paris, a Monet adventure park and the death of life drawing – the week in art
21 Luglio 2024Generare numeri davvero casuali non è semplice
21 Luglio 2024Anna Foà racconta papà Luciano: «Anche a casa si parlava tanto di lavoro e di libri. E Calvino ci leggeva Fiabe italiane»
Editore e traduttore, nel 1962 fondò con Bobi Bazlen la casa editrice Adelphi: «Insistette molto per la pubblicazione di Se questo è un uomo. Era già stato rifiutato dalla casa editrice»
Anna Foà non ricorda con esattezza il primo libro che le regalò suo padre. Ci pensa un minuto, poi dice: «Sono cresciuta tra le pagine». Da bambina osservava pile di libri più alte di lei, un patrimonio di carta ereditato prima da suo nonno, poi da suo padre. Nel 1898, Augusto Foà, appena ventunenne, fondò a Torino la prima agenzia letteraria d’Italia, la ALI. I suoi uffici, in seguito trasferiti a Milano, rappresentarono per il figlio Luciano Foà l’inizio di una grande storia. Non solo per la gavetta, faticosa quanto necessaria. Soprattutto perché fu in agenzia che incontrò per la prima volta Roberto (Bobi) Bazlen. Futuro amico e collega, intellettuale d’avanguardia, in un giorno fortunato degli anni Trenta si trovava proprio nei paraggi dell’ALI alla ricerca di testi tedeschi. Chiese informazioni a un venditore ambulante di libri, che gli indicò l’insegna dell’agenzia: «Potete trovarli solo lì!». Luciano Foà e Bobi Bazlen si conobbero in quell’occasione. Insieme, nel 1962, fondarono una nuova casa editrice. «Bisogna sempre lasciare la casa dei padri, prima o poi — dice Anna Foà —. Per creare qualcosa di nuovo. Nel caso di mio padre quell’avventura si chiamò Adelphi».
È successo anche a lei? Ha lasciato «la casa dei padri»?
«Direi di sì. Ho lavorato per anni in Adelphi ma nel 2019 ho deciso di creare la mia casa editrice. Si chiama Acquario Libri. Un nome particolare: era stato scartato da mio padre e da Bazlen. Abbiamo deciso di dargli una seconda chance».
Ha fondato la sua casa editrice proprio a Torino. Un ritorno alle origini?
«Sono nata in questa città, dove ho vissuto una parte dell’infanzia. In quel periodo mio padre lavorava per Einaudi, come segretario generale. Penso sia stata l’esperienza torinese a trasformarlo in un vero editore».
Lo osservava al lavoro?
«Quando potevo. Si alzava presto alla mattina, intorno alle 6. Si sedeva alla scrivania e iniziava a tradurre. Poi, intorno alle 9, si dirigeva in via Biancamano, dove restava fino alle 19».
Cosa ricorda di quegli anni?
«La squadra di Einaudi. Giulio Einaudi in primis. Tra il ’51 e il ’61 le nostre famiglie hanno vissuto praticamente sempre insieme tra cene, gite, vacanze a Courmayeur, Dogliani e Bocca di Magra. E poi condividevano molto tempo in ufficio».
In quali occasioni il parere di suo padre fu decisivo?
«Ad esempio, per la pubblicazione di Se questo è un uomo. Era già stato rifiutato dalla casa editrice. Mio padre, però, insistette molto. In una lettera di Primo Levi si legge: “Meno male che è arrivato Foà che mi ha fatto pubblicare con Einaudi”. Mia madre invece contribuì indirettamente alla pubblicazione del Diario di Anna Frank: Giulio Einaudi aveva consegnato la bozza del libro alle mogli dei suoi collaboratori più stretti, per conoscerne le reazioni. Piacque a tutte. Fu pubblicato».
Una squadra affiatata?
«Sì. Anche nella nostra casa torinese, prima in corso Cairoli e poi in corso Stati Uniti, si discuteva di lavoro. In questo genere di situazioni noi bambini restavamo in disparte, ma ogni tanto qualche adulto veniva a farci compagnia. Calvino, ad esempio, ci leggeva Fiabe italiane».
Quale tratto caratterizzava suo padre?
«La precisione e la cura per ogni lavoro, dalle traduzioni al catalogo. Mi ha insegnato che bisogna fare attenzione a ogni minimo dettaglio. Mi ha trasmesso quella capacità di “guardare oltre”. Insomma, mi ha insegnato a fare i libri».
Pragmatico o creativo?
«Pragmatico, aveva studiato legge. Era il “braccio realizzatore” di Bobi Bazlen, che invece era creazione allo stato puro. Bazlen aveva un occhio particolare per i talenti, era un “liberatore”. Tra lui e mio padre c’era un rapporto allievo-maestro, avevano tredici anni di differenza».
Erano dunque molto diversi?
«Sì, ma complementari. Per questo motivo sono riusciti a creare qualcosa di grande come Adelphi, un progetto che avevano in mente già dal ‘37. Nel ’62, anno della fondazione, ebbero anche il sostegno di Roberto Olivetti. Il legame con la famiglia Olivetti esisteva da tempo: mio padre era già stato chiamato da Adriano per le Nuovi Edizioni Ivrea, che voleva rifondare la cultura italiana dopo il fascismo. Un progetto che sfumò con la guerra».
Si ricorda il fervore della nascita di Adelphi?
«La vivevo in casa. C’era un desiderio di innovazione, ma non mancava la prudenza. Era un progetto ambizioso: da considerare che mio padre non si è mantenuto con Adelphi per 25 anni».
Innovazioni e riletture, come quella di Nietzsche. Fu il pretesto per creare Adelphi?
«Quella fu un’altra storia ancora. Bazlen e mio padre pensavano alla nuova casa editrice da diverso tempo. Ma in quel periodo ci fu l’intuizione di Giorgio Colli: aveva capito che le carte di Nietzsche erano differenti da ciò che veniva propinato come La volontà di potenza. Era, però, una teoria tutta da dimostrare. E questo avrebbe significato un grosso finanziamento. Einaudi non se la sentì, mentre mio padre volle seguire l’idea di Colli, che infatti prese forma con Adelphi. I rapporti con Giulio Einaudi, comunque, non sono mai venuti meno. Sono sempre stati legati da una profonda stima».
Era un padre severo?
«Non severo. Piuttosto di una dolcezza distaccata».
Differenze tra voi?
«I gusti musicali. Voleva sempre ascoltare Mozart, mentre io ero fan dei Beatles. A metà anni Sessanta vennero a Milano e io volevo tantissimo andare al concerto insieme a mio fratello».
I vostri genitori furono d’accordo?
«No. Mia madre non volle mandarci e mio padre le diede ragione. Ma i biglietti, io, li avevo già comprati. A casa, durante una discussione sulla questione, a un certo punto Bobi Bazlen disse: “Ci vado io!”».
E ci andò veramente?
«Sì. Insieme al poeta Sergio Solmi. Due vecchietti circondati da ragazzine urlanti. Ma Bazlen, evidentemente, aveva già capito quale sarebbe stato il successo della band. Ancora mi brucia. Ma gli sono stata molto affezionata. Tanto che con Acquario Libri abbiamo dato vita a Bazleniana, un libro sulla terapia psicoanalitica dell’immaginazione attiva fatta da Bazlen insieme a Ernst Bernhard. Abbiamo inserito disegni autografi inediti, accompagnati dalle riflessioni di autori legati alla figura di Bobi».
Suo padre non ha vissuto la nascita di Acquario Libri. Se fosse qui, cosa direbbe?
«Sarebbe stupito. E, in seguito, mi chiederebbe: “Avete i finanziamenti?”. (ride). È stato un padre premuroso. Mi chiedeva sempre di chiamarlo, anche se mi trovavo dall’altra parte del mondo».