
Mode, malinconie di abiti dismessi, e futuribili proiezioni del gusto
9 Febbraio 2025
Caro scrittore, canta che (non) ti passa
9 Febbraio 2025
L’arcivescovo di Canterbury e la badessa di Bingen tra visione e intelletto E laddove la ragione non arriva, provvede il cuore
testo di Alessandro Ghisalberti*
L’interesse per il pensiero di sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) si è molto espanso nell’arco degli ultimi decenni, e si è distribuito su tutta la sua produzione letteraria così da fare risaltare la sua figura come quella di un maestro che ha affrontato la problematica filosofico- teologica nella sua articolazione profonda e complessa: un’autentica “luce” che si levò in pieno secolo XI, un pioniere della rinascita che contrassegna il primo secolo del secondo millennio. Anselmo si è dedicato con particolare impegno a cercare di rendere il più possibile comprensibili all’intelletto umano le verità di fede del cristianesimo: il suo metodo di indagine riguarda, infatti, la “fede alla ricerca dell’intelligenza”, per usare una sua celebre espressione.
Le aree in cui Anselmo è coinvolto in queste sue ricerche sono molteplici, toccando molti punti della dottrina cristiana. Ad esempio: l’esistenza di Dio è una verità di fede, ma è possibile darne una spiegazione che sia anche comprensibile dalla ragione? E ancora: l’incarnazione di Cristo è una verità di fede, ma è possibile darne ragione con motivazioni per noi comprensibili? Secondo Anselmo è possibile, e dunque, in questo senso, egli ha davvero voluto illuminare alcuni aspetti della dottrina per renderli accessibili al nostro intelletto. Una costruzione originale che Anselmo ha lanciato riguarda proprio un’innovativa prova per dimostrare l’esistenza di Dio, da lui chiamata col nome di “unico argomento” ( unum argumentum) e contenuta nei primi capitoli dell’opera intitolata Colloquio ( Proslogion, composta nel 1077). Tale prova è stata talmente significativa per la storia del pensiero, soprattutto filosofico, che ha dato origine a un ampio e fruttuoso dibattito nei secoli successivi, fino ai giorni nostri. Nei manuali odierni essa viene solitamente qualificata come “argomento ontologico”, anche se in realtà le sue declinazioni nel corso della storia sono state molteplici: tale prova è stata, infatti, fin da subito ripresa da molti autori, ciascuno dei quali ha voluto proporne una propria riformulazione particolare, con coloriture e sfumature diverse rispetto a quella anselmiana (si pensi, ad esempio, a Duns Scoto o a san Bonaventura).
La peculiare formulazione dell’argomento anselmiano ha fatto sì che ricevesse attenzione e confronto critico anche da parte dei principali pensatori della filosofia moderna (tra cui Cartesio, Leibniz, Kant), mentre nella seconda metà del Novecento ha ottenuto valutazioni impegnate sia sul piano della logica, da parte dei pensatori cosiddetti analitici (come Gödel e, ancor più di recente,

Plantinga), sia a livello epistemologico e dialettico, da parte dei filosofi sostenitori dell’ontologia metafisica.
Prima di esporre alcuni passaggi significativi del celebre argomento è utile richiamare l’inserimento del tema della luce che Anselmo fa nei capitoli iniziali del Colloquio. Egli invoca Dio perché insegni al suo cuore come lo possa cercare, e aggiunge: «Ma tu abiti certamente una “luce inaccessibile”. E dov’è la luce inaccessibile? In quale modo mi accosterò alla luce inaccessibile? E chi mi condurrà e mi introdurrà in essa, affinché io veda te in essa?». Erano già state ideate in precedenza delle prove dell’esistenza di Dio, ma Anselmo non è del tutto soddisfatto da esse: egli sta cercando un argomento nuovo, unico, più immediato, capace di confutare direttamente e una volta per tutte chiunque voglia negare l’esistenza di Dio. Dopo notti insonni alla ricerca di tale argomento, che aprisse uno spiraglio per sfondare l’inaccessibilità della luce e per trovare «quell’argomento unico che per la propria dimostrazione non necessita di altro che di sé solo e che, da solo, è sufficiente a provare che Dio è realmente e che è sia il bene sommo che non manca di alcun altro bene, sia ciò di cui tutte le cose abbisognano per essere e per essere buone, sia tutte quelle altre cose che crediamo a proposito della divina sostanza», inaspettatamente, una notte, nel «conflitto dei pensieri», la mente di Anselmo venne illuminata da una formula esprimente una precisa nozione di Dio come «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» ( id quo maius cogitari nequit).
Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell’insipiente, ovvero colui che intende negare l’esistenza di Dio. Tale figura è desunta da un passaggio del Salmo 13, nel quale, appunto, si parla dell’insipiente, qualificato come una persona che afferma in cuor suo: «Dio non esiste». È proprio a partire da questa affermazione che prende avvio la prova anselmiana. Anselmo, infatti, inizia a domandarsi che cosa può significare l’affermazione: «Dio non esiste». Perché essa raggiunga un livello di comprensione da parte dell’intelletto, Anselmo rileva che l’insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto, il senso del suo dire si tradurrebbe nell’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto: infatti, se di esso negasse l’esistenza anche nell’intelletto, l’insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione. La negazione dell’esistenza di Dio, se riportata in positivo, equivale, cioè, all’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto e non nella realtà; ma ciò implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell’intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penserei qualcosa di “maggiore”. Non resta, perciò, che respingere la posizione dell’insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione, e la contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà.
Formidabile, l’apertura del capitolo 16 del Proslogion, dove Anselmo ci aiuta a capire che tutto il percorso è il contrassegno della luce inaccessibile in cui il Signore abita, ossia l’abitare una luce inaccessibile è la diretta conseguenza dell’essere «qualcosa di maggiore di quanto si possa pensare», dell’essere maggiore rispetto a ogni pensabile, di essere ciò che il pensiero può pensare come l’assolutamente eccedente il pensiero stesso.
Come già accennato, l’importanza della prova anselmiana è stata riconosciuta anche nel Novecento da importanti pensatori del calibro di Kurt Gödel e di Alvin Plantinga, che hanno rivalutato l’unico argomento liberandolo da alcune critiche e pregiudizi che l’avevano segnato nel periodo moderno. Kurt Gödel (1906-1978), famoso matematico e logico moravo, è noto per aver elaborato una “prova matematica” dell’esistenza di Dio: ossia, egli ha formalizzato l’argomento ontologico utilizzando il linguaggio simbolico della logica matematica, rigorizzandone la struttura argomentativa dal punto di vista scientifico e risolvendo le criticità di alcuni passaggi che in precedenza erano considerati problematici, quale ad esempio la possibilità della compatibilità di un numero infinito di proprietà positive nell’essere divino. Molto significativo è altresì il contributo di Alvin Plantinga (1932), epistemologo e teologo statunitense, esponente di spicco nell’area della filosofia analitica, che ha riacceso il dibattito sull’argomento ontologico dimostrando in modo convincente l’infondatezza della celebre obiezione del “salto indebito” dall’idea di Dio all’esistenza di Dio. Plantinga ha chiarito come Anselmo non abbia mai inteso dedurre l’esistenza reale di Dio a partire da un’idea mentale, bensì ha condotto ciò che in logica viene chiamato una riconduzione all’assurdo ( reductio ad absurdum) della tesi atea; in ultima analisi, lo scopo di Anselmo è quello di illuminare il pensiero dell’ateo.
La “luce vivente” accompagna per oltre trent’anni santa Ildegarda di Bingen (1098-1179). La conturbante visionaria sta vivendo nel terzo millennio la sua seconda vita. Ildegarda è stata riconosciuta come “profetessa” (autorizzata a interpretare la divina rivelazione) e teologa, vincendo le storiche resistenze al mondo femminile, proprie del suo tempo. Oggi, sono continuamente riprese e diffuse le sue composizioni musicali, mentre alle sue opere dell’area naturalistica (medicina e farmacologia) è dedicata la trasmissione settimanale di un canale televisivo privato, così come sono divulgate le sue ricette dietetiche, molto esaltate dalla naturopatia o medicina naturopatica del XXI secolo. Le sue opere hanno conservato nei secoli la carica della “luce” che l’aveva investita, icona femminile di una stagione che non può essere detta “buia”.
Ildegarda è stata canonizzata il 10 maggio 2012 da Benedetto XVI, che il successivo 7 ottobre l’ha proclamata “Dottore della Chiesa universale”, la quarta donna a ottenere questo titolo.
La sorpresa maggiore che prova il lettore delle opere visionarie della badessa di Bingen (in realtà, prima dell’approdo finale a Eibingen nel 1165, Ildegarda fu badessa nei monasteri di Disibodenberg e di Rupertsberg) sta nel carattere delle sue visioni, che risultano assai diverse da quelle descritte nei testi degli altri mistici medievali. Stupefacente la descrizione che troviamo all’inizio della prima opera visionaria ( Scivias, “Conosci le vie”): «Nell’anno 1141 dell’Incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, avendo io 42 anni e 7 mesi, una luce di fuoco di grandissimo splendore che scendeva dal cielo aperto, trapassò tutto il mio cervello, tutto il mio cuore e tutto il mio petto, come una fiamma che non brucia, ma riscalda, e m’infiammò come suole fare il sole per qualcosa su cui lui manda i suoi raggi. E all’improvviso provai gusto intellettuale sia nel saper comprendere il senso del Libro (sacro), sia del Salterio, del Vangelo e di altri libri, sia dell’Antico e del Nuovo Testamento». Dopo questo evento, Ildegarda fu in grado di interpretare le scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, pur non avendo avuto una precedente istruzione in materia. La mistica era tutta tesa a comprendere il significato delle parole viste, sentite e memorizzate nelle visioni, che proseguirono ininterrottamente per dieci anni, nei quali attese alla scrittura dello Scivias.
Le visioni di Ildegarda sono caratteristiche per il fatto che non avvengono durante il sonno, non sono percepite dagli occhi o dalle orecchie del corpo, ma sono ricevute a occhi aperti, attraverso i sensi interiori. A sessant’anni, la badessa continuava a godere delle visioni, che la portavano ai vertici della volta del cielo, «dove l’aria è diversa e si distende tra i popoli», e dove vedeva una luce senza confini, il cui nome è «ombra della Luce vivente», al cui interno risplendono «le scritture, i sermoni, le virtù e alcune opere degli uomini», che la visionaria percepiva anche sonoramente, e di cui nella maturità la stessa badessa traccia le caratteristiche, che, ripetiamo, non trovano analogie nella letteratura mistica medioevale: «Le visioni che io ebbi non le ebbi nei sogni, né dormendo, né in momenti di frenesia, né in luoghi nascosti, ma da sveglia, con la mente chiara, guardandomi intorno con gli occhi e con le orecchie dell’uomo interiore, in luoghi aperti, in conformità alla volontà di Dio. Come ciò possa avvenire in una persona è difficile indagare. Ma passati gli anni della giovinezza ed avendo io raggiunta la suaccennata età della maturità, udii la voce del cielo che mi diceva: “Io, la luce vivente che fa diradare l’oscurità, scossi a mio piacere arcanamente l’uomo che volli [la stessa Ildegarda] e lo collocai tra le cose grandi, oltremodo meravigliose”». Ildegarda dichiara che le visioni si sono verificate mentre era sveglia, in situazione ambientale del tutto normale, escludendo qualsiasi stato di estasi o di rapimento della mente, con il singolare referente alla costante immersione in una “Luce vivente”, un’immersione interiore che cattura parole umane, che però vede e sente con i sensi spirituali e vedendo, sempre interiormente, immagini collegate ai contenuti delle visioni. Siamo in presenza di un universo di illuminazioni interiori che hanno come connessione solo la via della luce, cioè Dio stesso, e non sono derivate da alcuna altra dottrina.
Nelle opere visionarie di Ildegarda emerge la collocazione dell’uomo al centro del Creato: l’uomo-microcosmo è in un’unità stretta con il mondo intero, il macrocosmo. Al tema sono dedicati tantissimi capitoli delle sue opere, e colpisce sempre l’anticipazione di quella visione olistica del creato, che rende le sue opere interessanti per molti antropologi e cosmologi nostri contemporanei. La nostra badessa vede nell’interconnessione cosmica anche il lato maschile/ femminile della corporeità, e la femminilità non è pensata come la sola responsabile del peccato originale, ma in totale corresponsabilità con il maschile; inoltre, mentre l’uomo fu fatto con un impasto di terra, la donna è stata fatta dalla carne di Adam, e perciò la sua mente è più acuta e leggera, non oppressa dal peso della terra. La forza vitale al centro dell’universo è da Ildegarda chiamata Viriditas (“ciò che verdeggia”), una linfa che unisce il colore verde e ciò che germoglia e fruttifica, dunque l’energia primordiale che favorisce la vita non solo nella vegetazione, ma in tutto il Creato. Il concetto di verde è collegato con la narrazione del terzo giorno della creazione secondo il libro della Genesi, quando Dio disse: «Che la terra sia verde di giovani germogli ». La forza verde esiste nel corpo e nell’anima delle persone, nello spirito, nella ragione, nella volontà, nei sensi e nella fertilità. La Viriditas nelle piante è visibile, mentre negli altri luoghi è invisibile, ma sempre molto determinante («ciò che si vede è debole, ciò che non si vede è forte e vivo»!).
Le forze dell’universo intero si riversano sull’uomo, e dunque c’è una continuità tra l’ordine delle nature (minerali, vegetali e animali) e l’influenza delle loro energie sull’uomo. Abbiamo già accennato ai libri della badessa che si interessano al potere terapeutico di tutti i prodotti che diventano alimenti, divisi in alimenti per sani, per ammalati e in alimenti sconsigliati perché aumentano i fluidi negativi nelle persone. Oltre alle riflessioni naturalistiche, ricavate dalla biologia, dalla medicina, dalla botanica e dagli erbari, sono state determinanti per l’arte terapeutica sviluppata nelle opere della nostra badessa le regole e la prassi del digiuno monastico, secondo la Regola di san Benedetto, nel cui ordine militava.
In chiusura, ci domandiamo quale orientamento ispirasse la nostra Ildegarda in relazione ai destinatari futuri, cui voleva trasmettere i contenuti delle sue visioni, noi compresi. Ebbene: nella scrittura visionaria di Ildegarda viene ripetuto l’asserto che l’ascoltare, il prestare attenzione totale al resoconto delle visioni, stante la loro origine «dalla viva voce della luce vivente», assolve al compito di ripristinare il ricordo di Dio (la memoria Dei), far percepire il volto luminoso del Dio di cui l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza. Come ha precisato papa Benedetto XVI nella Bolla in cui la dichiara Dottore della Chiesa, il suo messaggio appare straordinariamente attuale nel mondo contemporaneo, particolarmente sensibile all’insieme dei valori proposti e vissuti da lei: la capacità carismatica e speculativa di Ildegarda, la sua riflessione sulla bellezza del mistero di Cristo, il dialogo della teologia con la cultura, la scienza e l’arte contemporanea, la profonda sensibilità per la natura in tutte le sue componenti. Inoltre, il papa afferma che l’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarda di Bingen ha una grande importanza per le donne, poiché in Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità, per cui anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura.
*già ordinario di Filosofia teoretica e di Storia della filosofia medievale presso l’Università Cattolica di Milano
https://luoghidellinfinito-ita.newsmemory.com/?token=4bef8bbc6a7c0a0ba67c4396ed999e93_67a8603b_1121b