Come si finanzia il futuro dell’Europa? Di fronte ai parlamentari di Strasburgo, a cui ha presentato ieri il suo rapporto sulla competitività, l’ex presidente della Bce Mario Draghi è tornato su una proposta chiave del documento, quella che più ha spaccato favorevoli e contrari. Per mobilitare gli 800 miliardi l’anno di investimenti necessari ad affrontare le transizioni verde e digitale, i capitali privati non bastano: serve una quota ingente di fondi pubblici che i singoli Stati, con i vincoli di bilancio, non potranno garantire. Per questo, ha detto Draghi, «se ci si oppone alla costruzione di un vero mercato unico, all’integrazione del mercato dei capitali e all’emissione del debito comune», in realtà «ci si oppone ai nostri obiettivi comuni». Il debito, ha aggiunto, «non è per la spesa pubblica generale o per sussidi», ma «per realizzare gli obiettivi fondamentali per la nostra futura competitività, sui quali abbiamo tutti già concordato».
Il concetto era già espresso a chiare lettere nel testo del rapporto. Ma il fatto che Draghi lo abbia ribadito non è casuale. L’indicazione di rendere stabile l’emissione di eurobond, e usarli per finanziare “beni pubblici europei”, dalle infrastrutture, alla difesa, ai progetti industriali strategici, ha sollevato le sonore opposizioni dei Paesi frugali, a cominciare dalla Germania: «Non risolverà alcun problema strutturale», aveva detto a caldo il ministro delle Finanze di Berlino, il liberale Christian Lindner. La stessa Von der Leyen del resto, che ha commissionato il rapporto e la scorsa settimana lo ha presentato con Draghi, aveva svicolato sul punto, dicendo che prima viene l’accordo sui progetti e poi la decisione su come finanziarli.
Le parole di Draghi al Parlamento Ue suonano come una (dura) controreplica alle posizioni tedesche e degli altri frugali. Ma che la strada verso il debito comune sia difficilissima — dopo quello “una tantum” emesso per finanziare il Next Generation Eu— lo testimoniano anche equilibri e programma della nuova Commissione presentata ieri da Von der Leyen. Come anticipato, nel preambolo comune delle lettere di incarico dei 26 commissari, la presidente cita il piano di Draghi come il primo di una serie di rapporti a cui i membri del suo esecutivo dovrebbero “attingere”, insieme a quello di Enrico Letta sul mercato unico, quello dell’ex presidente finlandese Sauli Niinistö sulla difesa e a quello sul futuro dell’agricoltura. Nella lettera a Stéphane Séjourné, il francese che da vicepresidente guiderà la strategia industriale europea, ne sono richiamate la visione e alcune specifiche proposte, come la creazione di uno strumento di coordinamento per la competitività, priorità trasversale della Commissione. Proprio i portafogli economici di peso ottenuti da Spagna e Francia, due Paesi favorevoli agli eurobond, possono essere letti come uno spiraglio. D’altra parte, lalettera delle indicazioni di Von der Leyen va in una direzione diversa, se non opposta.
Alla spagnola Teresa Ribera, vicepresidente che si occuperà di transizione e concorrenza, Ur sula chiede per esempio di rivedere il quadro sugli aiuti di Stato, proseguendo l’alleggerimento “temporaneo” dei paletti varato durante la crisi energetica in modo da accelerare l’installazione delle rinnovabili, la decarbonizzazione dell’industria e lo sviluppo di una filiera tecnologica verde. In sostanza, fa intendere che il Green Industrial Act, il piano che dovrebbe affiancare agli obiettivi climatici una strategia industriale coerente, dovrà essere finanziato in buona parte dai singoli Paesi. L’alleggerimento delle norme sugli aiuti di Stato è stato contestato da molti governi per le spaccature che crea nel mercato unico, favorendo gli Stati con maggiore capacità di spesa e generando una concorrenza interna. Nel suo rapporto, per gli stessi motivi, Draghi raccomanda di bloccare le deroghe, sostituendo gli incentivi di Stato con sussidi europei coordinati. Von der Leyen invece raddoppia. E se è vero che vuole anche lanciare un “fondo per la competitività europea” con nuove risorse comuni, non è chiaro quante saranno né quando partirà.
Ieri Draghi ha ribadito che «la paralisi non è più tenibile, l’integrazione è l’unica speranza» o «col tempo diventeremo inesorabilmente un luogo meno prospero, meno equo, meno sicuro e saremo meno liberi di scegliere il nostro destino». Se gli eurobond sono una condizione decisiva per evitare il declino, la scossa non pare essere arrivata. Il rapporto suggerisce anche un’ipotesi di compromesso: ritardare la restituzione del debito già raccolto per finanziare il Next Generation EU e destinarlo ad altri progetti strategici. Ha il vantaggio di non richiedere “nuove emissioni”, ma non pare meno difficile da far digerire ai frugali.