Dopo il silenzio cupo e comprensibilmente rancoroso che per 35 anni aveva rimosso l’arte del Ventennio dalla memoria collettiva, nel 1980 fu uno studioso del rango di Jean Clair ad aprire la prima decisiva breccia nella damnatio memoriae che l’aveva così lungamente tumulata. Lo fece con la mostra al Centre Pompidou «Les Réalismes: entre révolution et réaction 1919-1939». Sulla copertina del catalogo, L’allieva di Mario Sironi, il più grande degli artisti italiani del tempo, un gigante di statura europea ma anche il più compromesso con il regime, di cui era stato un convinto cantore.
Nel 1982, a Milano, fu la volta della mostra grandiosa «Anni Trenta», che esplorava l’arte e la cultura di quel decennio in cui le arti visive avevano rivestito un ruolo cruciale nella costruzione del consenso intorno al fascismo. E nel 1983 Rossana Bossaglia ordinava da par suo, ancora a Milano, «Il Novecento italiano 1923-1933». Promotore di entrambe queste mostre, Gabriele Mazzotta, figura non certo sospettabile di simpatie verso il fascismo, essendo stato l’editore di riferimento del Sessantotto, non solo milanese.
In pochi mesi si scoprì così che la migliore arte italiana del tempo (non tutta: la migliore) non solo aveva avuto una caratura internazionale ma era anche stata polifonica, all’opposto di ciò che era accaduto nella Germania nazista o in Unione Sovietica.
In un’Italia schiacciata dalla dittatura, convivevano infatti, sorprendentemente, il Novecento italiano, il futurismo, l’astrattismo e tanti “antinovecentismi” (avversati questi, ma presenti) come la Scuola di via Cavour, i Sei di Torino, i Chiaristi e Corrente, mentre in architettura s’imponeva il razionalismo, spesso ibridato con un monumentalismo di antica tradizione: una vicenda altissima quest’ultima, com’è da tempo riconosciuto.
Lo si sapeva dunque, ma nessuno sinora aveva osato servirsi, sin dal titolo, del binomio «Arte e Fascismo». Lo fa Vittorio Sgarbi nella grande mostra da lui ideata e affidata alle cure di due studiose come Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, che vi hanno riunito 400 opere e materiali d’archivio, esposti in isole tematiche formate da un materiale eterogeneo dove, per ricomporre il tessuto artistico di quegli anni, s’intrecciano deliberatamente capolavori (molti) e cose di minor conto. Da Sironi ad Arturo Martini e Wildt, da Morandi a Casorati, Carrà, Campigli fino ai futuristi Prampolini, Depero, Thayaht, figurano qui opere bellissime e – negli anni 20 – per nulla encomiastiche: basti pensare a Solitudine di Sironi, a Beethoven di Casorati o alla Natura morta qui esposta di Morandi. È, questa, la stagione dei sette pittori di “Novecento” (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi), gruppo fondato nel 1923 da Margherita Sarfatti, seguito dal suo ben più affollato (ma non meno qualificato) “Novecento italiano”. Lei, musa e amante di Mussolini, donna determinata e di grande fascino intellettuale, ben nata e ben cresciuta a Venezia in una famiglia ebraica dalla cultura cosmopolita, teorizzò un’arte che si facesse interprete di una «moderna classicità» e fu la vera artefice di questa prima, felice stagione artistica sotto il fascismo. Sempre lei fu l’ispiratrice del discorso con cui Mussolini nel 1923 inaugurò la prima mostra di “Novecento” nella Galleria Pesaro di Milano dove, da Presidente del Consiglio, proclamò: «dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. […] Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale». Proclama poi rispettato con l’attività di costante sostegno agli artisti (con conseguente ferreo controllo del loro operato) ma anche disatteso perché l’arte di Stato ci sarà eccome e culminerà in quella dei bolsi artisti del Premio Cremona (1939-1941) indetto dal gerarca Farinacci, feroce nemico di Sarfatti e del novecentismo più sperimentale. Loro, gli artisti di Farinacci, dipingevano invece, compostamente, un’umanità intenta ad «ascoltare il discorso del Duce alla radio» o impegnata nella «battaglia del grano»: i temi di due edizioni del Premio.
Se c’era Farinacci c’era però anche il ministro Bottai, uomo colto e lungimirante, che fondò il Premio Bergamo (1939-1942) dove trovarono spazio – e premi – artisti controcorrente come Guttuso, Sassu, Birolli, Morlotti, Capogrossi, Rosai. Ma prima di arrivare qui, in mostra ci s’imbatte nella bellissima sezione dell’architettura e in quella, affollata e impressionante, dedicata all’immagine del potere, dominata da Dux di Wildt: un busto di Mussolini in nudità eroica, le spalle imponenti, il capo cinto dall’infula dei sacerdoti e degli imperatori romani. Insieme, il Condottiero di Thayaht (la testa del duce tradotta in un elmo futuribile) e l’impagabile Profilo continuo (Dux) di Renato Bertelli (il profilo di Mussolini che, ruotando, crea una scultura a tutto tondo) esposto qui in decine di esemplari, essendo diventato allora una sorta di diffusissimo gadget. Altro passaggio chiave è quello dell’arte monumentale, teorizzata da Sironi, Funi, Campigli e Carrà nel celebre Manifesto del 1933, che darà forma alle mitologie (e alla propaganda) del regime. Per Sironi questa era «l’arte sociale» per definizione, una sorta di Biblia pauperum tesa a diffondere i valori promossi dal fascismo: lui lo farà attingendo al grande serbatoio del mito e consegnando così le sue composizioni, anche le più apologetiche, a un’atemporalità sacrale, svincolata dalla contingenza.
Infine, il crepuscolo del regime, con le lugubri Fantasie di Mafai e gli sberleffi della serie Dux del già fascistissimo Mino Maccari. E, vero colpo di teatro, un altro esemplare del Dux di Wildt, questo picconato durante la Liberazione. Questo, e non il primo, è significativamente l’immagine-simbolo della mostra. Bisogna farci caso a quei buchi, così molte domande avranno risposta.
Arte e Fascismo
Rovereto, Mart
Fino al 1° settembre
Catalogo L’Erma di Bretschneider, pagg. 576, € 45