La guerra in Ucraina. Il pianeta frammentato. Gli eccessi della finanza Nel nuovo saggio l’economista Nouriel Roubini affronta le crisi di oggi
«Il mio lavoro di economista consiste nello studiare i rischi e avvertire i governanti e la popolazione delle loro conseguenze. Se poi questo suona come eccesso di pessimismo, sta ai fatti e all’opinione pubblica verificare. Non mi sembra di essermi sbagliato troppe volte». Nouriel Roubini, il guru della New York University, ha conosciuto fama mondiale per aver predetto la crisi finanziaria che nel 2008, dopo lo scandalo dei mutui subprime e il crack della Lehman Brothers in America, si allargò via via a tutto il mondo, intrecciandosi diabolicamente in Europa (prima in Grecia e poi in Italia) con la disfatta dei debiti sovrani. Da allora, viviamo in condizione di “permacrisis”, crisi permanente, il cui ultimo tassello è l’inflazione da energia a sua volta causata dalla guerra in Ucraina. Roubini ha preso diligentemente nota delle insidie che minacciano l’occidente e le ha analizzate nel saggio Megathreats, le minacce globali, che esce in Italia da Feltrinelli con il titolo La grande catastrofe. «Mi hanno chiamato Dr. Doom, signor sciagura, ma mi sembra più giusto Dr. Realist».
Professore, la guerra in Ucraina rappresenta la madre di tutte le crisi, e arriva a ridosso del Covid. Quanti altri fronti bisogna guardare?
«Ci sono dei fattori di incertezza e destabilizzazione mondiali tuttora irrisolti, a partire dall’indebitamento che ha raggiunto, fra pubblico e privato, il 420% del Pil mondiale.
Negli anni ’70 era in media del 100% nei Paesi industrializzati. Eppure fronteggiammo due crisi petrolifere consecutive – nel 1973 dopo la guerra del Kippur e nel 1979 con il ritorno di Khomeini a Teheran – con danni tutto sommato ragionevoli. Invece oggi i debiti hanno imboccato una spirale ascensionale irrefrenabile».
Cos’è che lo alimenta?
«L’eccesso di finanza a scapito dell’economia reale ha fatto la sua parte. Così come il lungo periodo in cui i tassi sono rimasti a zero, per cui indebitarsi era quasi un obbligo e i mercati apparivano come drogati. Si è come perso il senso del denaro: pensate alle criptovalute, bitcoin e compagnia, che non sono né attività né titoli ma solo una truffa, shit-money. È incredibile come tanta gente sia caduta in questa trappola tossica che ha inquinato ulteriormente il già instabile quadro finanziario globale».
Infine è arrivata l’inflazione, a cavallo dei carri armati di Putin…
«Non solo. Già nella rabbiosa ripresa dalla pandemia, diciamo nel 2021, si erano create strozzature nella catena delle forniture e carenze produttive, soprattutto perché la Cina è ripartita con ritardo, che avevano fatto lievitare i prezzi. Poi è partita la brutale aggressione all’Ucraina che oltre a lasciare tutti sotto shock, ha fatto impennare ulteriormente l’energia, gli alimentari, i fertilizzanti. E oltre a escludere la Russia da qualsiasi corrente di sviluppo per chissà quanti anni, ha riacceso le tensioni con la Cina, accusata di ambiguità, proprio quando si stava tentando una paziente ricucitura. Così, mentre si combatte quella che ormai è diventata unaproxy war, una guerra per procura Nato-Russia, e una seconda guerra fredda con la Cina, l’intero occidente vive un periodo di stagflazione: alta inflazione, bassa crescita, forti paure. Il peggior mix non solo per l’economia. La fine della globalizzazione, perlomeno della globalizzazione sana e positiva, ne è un’ennesima conseguenza».
Perché è un male ripensare la globalizzazione?
«Perché ci sarà stata pure qualche marginale controindicazione, ma nel corso dei decenni ha affrancato miliardi di persone dalla fame in Cina o in India, perché ha aperto i mercati degli scambi e del lavoro e perché il suo rovescio, ovvero la frammentazione di un mondo che pure resta interconnesso, porta al protezionismo e all’isolamento. Sono le stesse fenomenologie che rendono più forte, per capirsi, un’Europa unita e coesa rispetto a tanti staterelli chiusi e litigiosi. Pensi al disastro della Brexit».
Fra le “megathreats” ovviamente non dimentica il cambiamento climatico. Ma in questo settore si sono fermati o no gli investimenti, se non altro per la paura di restare al freddo?
«Bisogna distinguere: si è diffuso fra le aziende l’uso di fare investimenti improvvisati pur di entrare nelle grazie dell’opinione pubblica fregiandosi del titolo di compatibilità e pulirsi la coscienza, il cosiddetto green-washing. O tutt’al piùgreen-wishing, investimenti in buona fede ma basati solo su una mera speranza che servano a qualcosa per l’ambiente».
Da qualche parte bisognerà pur cominciare…
«Sono tante le variabili. A volte, per esempio, la ricerca dei metalli necessari per la transizione ambientale come il litio per le batterie dell’auto elettrica, comportano un dispendio pazzesco di energia».
Riusciamo a concludere con qualche parola di ottimismo? Nel libro è difficile trovarne…
«Sembra un paradosso: la stessa intelligenza artificiale che inserisco fra le minacce perché con i robot e l’automazione distrugge posti di lavoro, può viceversa aiutarci a costruire un futuro migliore. Perché libera da impegni stressanti ma soprattutto perché può garantire un salto qualitativo e quantitativo nella crescita complessiva delle economie, quindi più posti di lavoro, meglio pagati e più prestigiosi, più sviluppo industriale, miglioramento dell’assistenza sociale e sanitaria. Purché sia usata e governata con…intelligenza (umana)».