La scrittrice iraniana Azar Nafisi è stata tra le prime sostenitrici della raccolta di firme promossa lo scorso novembre da “La Stampa” per chiedere alle autorità di Teheran la libertà di tutte le detenute e i detenuti politici. Parla al telefono con voce commossa, pochi avrebbero scommesso che oltre 500 morti e quasi 30 mila arresti le sue connazionali sarebbero rimaste in strada a battersi, senza velo, per le riscattare le proprie madri e liberare le proprie figlie. Lei no, ci ha creduto sin dal principio, Ci crede.
È passato un anno dall’inizio della rivoluzione delle donne, cosa è successo all’Iran?
«L’aspetto più importante e minaccioso per la Repubblica islamica è il fatto che questa rivolta non sia ideologica ma esistenziale. “Donna, vita, libertà” significa il rifiuto dell’intero sistema che il regime ha imposto al Paese. È cambiato tutto. Le iraniane e gli iraniani non credono più nelle riforme e non hanno più paura. Il governo invece, condannato al proprio assolutismo, non ha altri strumenti che uccidere. Se questo movimento fosse stato politico sarebbe bastato arrestare i suoi leader per decapitarlo, ma non è così e non si possono arrestare milioni di persone».
Oggi è il giorno di Mahsa Amini e del riscatto che rappresenta. Cosa si aspetta?
«Vedremo ancora una volta manifestarsi la solidarietà tra forze diverse all’interno dell’Iran e la diaspora, perché il movimento è variegato e trasversale. E poi vedremo quanto internazionale sia questa protesta, ci saranno iniziative in tanti Paesi».
Già da ieri gli attivisti sono in strada a Zahedan, nel Sistan-Baluchistan, la provincia che sin dall’inizio ha preso l’iniziativa. Come mai stavolta le aree più periferiche sembrano quasi più protagoniste rispetto alle grandi città?
«Assistiamo a una rivolta decentralizzata, ed è una novità. I regimi totalitari, com’è la Repubblica Islamica, basano la loro identità sulla duplice negazione degli oppositori e delle minoranze. La repressione delle minoranze baluche e kurde va avanti da mezzo secolo, ma stavolta la loro frustrazione si è sommata a quella delle donne ed è uscita allo scoperto».
La repressione si è accanita sulle università, sono state chiuse le librerie indipendenti, il presidente Ebrahim Raisi ha invitato tutti gli editori a concentrarsi sugli scrittori locali e sui testi islamici dimenticando quelli europei e americani. Siamo tornati ai tempi bui in cui scriveva “Leggere Lolita a Teheran” e poi decideva di lasciare il Paese?
«Sin dall’inizio, nel 1979, gli atenei e tutti i luoghi della conoscenza sono stati il principale obiettivo del regime. La Repubblica islamica non teme nulla tanto quanto i libri. Mi ha sempre colpito la virulenza delle minacce contro Salman Rushdie, armato solo delle sue parole. Ma la censura ha prodotto il risultato opposto, oggi in Iran Václav Havel e Hannah Arendt vengono divorati come bestseller».
Sebbene in modo discontinuo, i media internazionali continuano a raccontare il coraggio delle iraniane. Eppure, molti analisti osservano che, dopo lo sbandamento iniziale di un anno fa, gli ayatollah hanno ricostruito la loro rete diplomatica e che tra Russia, Cina e Turchia non sono poi così tanto isolati. Qual è la sua impressione?
«È vero che esattamente come fanno tra loro le democrazie, la Repubblica islamica ha rafforzato i rapporti con gli altri regimi totalitari, a partire dalla Russia impegnata nell’invasione dell’Ucraina. Ma è una prova di debolezza e non di forza. Al momento su qualsiasi tavolo negoziale internazionale il governo iraniano ha perso più di quanto abbia guadagnato, è di fatto uno Stato di apartheid che come tale va trattato. “La Stampa” e gli altri media con le campagne che danno voce alla nostra gente fanno un lavoro prezioso. Porto sempre con me le parole che mi disse mia madre quando lasciai Teheran: “Dillo, al mondo in cui vivrai, come ci trattano”. Se parlate di noi ci salvate».
Quando finirà l’apartheid delle donne iraniane?
«Non possiamo saperlo, ma le cose sono cambiate in meglio. Anche dentro al regime cominciano ad esserci critiche e defezioni».
Perché il regime iraniano odia le donne al punto che, mentre gli attivisti vengono impiccati, le attiviste vengono stuprate, umiliate sessualmente, sfigurate?
«L’odio deriva dalla paura, basta vedere come le donne tengono testa in queste ore al regime. Per questo la Repubblica Islamica le demonizza, le definisce “tentazione sociale”. Ho sempre pensato che se un uomo è in condizioni tali da non potersi trattenere alla vista dei miei capelli sciolti andrebbe rinchiuso lui, in un ospedale mentale».
Gli attivisti vengono torturati in queste ore con l’accusa di essere agenti dell’Occidente. Come si sta comportando l’Occidente nei confronti della rivoluzione delle donne?
«Sono delusa dai politici occidentali che, di fatto, alimentano il pregiudizio secondo cui l’emarginazione delle donne iraniane sarebbe parte della nostra cultura. Si sono bevuti la propaganda del regime. L’Occidente dovrebbe capire invece che difendere la democrazia in Iran, in Afghanistan, in Ucraina non è idealistico ma pragmatico, che la democrazia nei nostri Paesi aiuterebbe quella italiana, quella francese, quella americana. L’Occidente dovrebbe allearsi con i popoli e non con i regimi. Questo non significa occuparci militarmente, ma utilizzare gli strumenti della diplomazia per criticare la violenza».
Ieri il presidente Joe Biden si è espresso ufficialmente in sostegno delle coraggiose donne iraniane. Eppure, in questi giorni, Washington, nel pieno delle trattative per il rilascio dei prigionieri americani, ha sbloccano 6 miliardi di fondi iraniani da mettere a disposizione del regime per l’aiuto umanitario. Qual è la strategia Usa?
«Vedo purtroppo il doppio standard americano. Per questo dubito dell’Occidente. Quanto ha fatto Washington ha consentito al regime di sostenere con gli iraniani che il mondo guarda altrove. L’accordo è di usare i soldi per gli aiuti umanitari, ma non sarà così».
C’è l’impressione che anche in Europa, accanto a una mobilitazione di base a corrente alternata, manchi un vero sostegno politico e intellettuale agli iraniani. Perché?
«È vero, non c’è un sostegno diffuso a tutti i livelli. Eppure oggi le donne sono sotto attacco in America come in Europa. Vorrei dire loro di non essere pigre, di guardare alla battaglia delle iraniane come fosse la loro, di non considerare i diritti come qualcosa di acquisito. La libertà è molto più difficile da gestire del suo contrario, perché presuppone responsabilità, non le abbandonate, non ci abbandonate. Riguarda le donne ma riguarda anche le minoranze, se ci fosse maggiore coesione a livello globale la discriminazione non avrebbe campo libero».
Scriverà della rivoluzione delle donne?
«Sto studiando, vorrei capire come il movimento “Donna, vita, libertà” possa contribuire a smantellare i pregiudizi nei confronti della nostra cultura che non è affatto tradizionalmente paternalista e nemica delle donne».