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24 Novembre 2024i n q u i e t i
di Antonella Guerrera
Amici, amanti, grandi maestri E tanti straordinari, inquietanti autoritratti La National Portrait Gallery porta di nuovo in scena il re della pittura britannicadal nostro corrispondente Antonello GuerreraLONDRA
«Non potrei ritrarre persone che non conosco, e non mi interesserebbe provarci » , sosteneva Francis Bacon, e così la mostra in suo onore alla National Portrait Gallery di Londra è un sontuoso omaggio alla sua tortuosa vita e straordinaria carriera. Francis Bacon: Human presence, aperta fino al 19 gennaio prossimo, è uno strapiombo paradisiaco e infernale sull’anima dell’artista, sulla sua Londra più intima, e sull’angosciante poltergeist che lo ha afflitto per tutta la vita.
La mostra riunisce oltre cinquanta ritratti e autoritratti dello stupefacente pittore inglese, nato a Dublino nel 1909. Ci sono i suoi “ selfie” a tratti cubisti degli anni Quaranta fino a quello spettrale del 1987 con pittura a spray, i quadri con i suoi giovani amanti e amici della Soho bohémien degli anni Cinquanta, e altre opere mesmerizzanti. Opere in cui Bacon, nel sublime spappolamento della presenza umana e delle sue forme, colori ed emozioni, incastra il suo volto nei fidanzati o anche in amici stretti come Lucian Freud, con il quale cenava quasi ogni sera prima che i loro rapporti si sfilacciassero irrimediabilmente, per ragioni ancora oscure.
«Ho realizzato molti autoritratti perché le persone intorno a me sono morte come mosche e ora non mi resta che dipingere me stesso» diceva. La vita tumultuosa e tragica del figurativo Bacon è qui in una magnifica catarsi. C’è “il suo vero amore”, Peter Lacy, ex meccanico e operaio dell’esercito britannico durante la Seconda guerra mondiale, che muore per le complicanze dell’alcolismo nel 1962 a Tangeri dove aveva provato a rifarsi una vita al piano bar. Ci imbattiamo in un ritratto nudo di Lacy proprio di quell’anno, in una passionale contorsione di carne e organi. C’è John Edwards, ultimo partner ed erede di Bacon, gestore di un pub di Londra Est conosciuto al Colony Room Club di Soho, forse l’amante più intellettualmente distante dall’artista, che con lui sviluppò una relazione quasi paterna.
E poi c’è George Dyer, piccolo criminale anche lui di East London, sempre impeccabile nel vestire e solo apparentemente eterosessuale, che Bacon incontra in un gay bar di Soho nel 1963 per intrecciare poi con lui un amore ferito da continui litigi, dall’alcolismo e dalla depressione di George. Dyer muore, nel 1971, distrutto da un’overdose di eccessi, nel bagno dell’Hôtel des Saints Pères a Parigi, dove era arrivato con Bacon per una grande retrospettiva dell’artista al Grand Palais (e curiosamente anche Lacy muore durante l’apertura di una sua mostra, alla Tate Gallery). L’enorme trittico in suo onore, ilPortrait of George Dyer in a Mirror che chiude la retrospettiva della National, è un adieu drammatico, disturbante, indimenticabile. Una sanguinosa transustanziazione del dolore.
Proprio un Rolex rubato da Dyer compare in un Autoritratto di Bacon del 1973, nel suo studio in Reece Mews a South Kensington, dove il caos e le carte del pavimento stavolta sono sostituiti da un parquet teatrale, come in un doloroso monologo d’artista, un inchino alla mortalità, alla caducità della vita e delle relazioni umane. Percezioni che pervadono tutte le opere qui presenti, tra tentazioni surrealiste ed espressioniste, anche quelle delle mondane ed eccentriche amiche Isabel Rawsthorne, Henrietta Moraes e Muriel Belcher, nella Londra dionisiaca dell’artista che avrebbe criminalizzato l’omosessualità ancora per lungo tempo.
Poi, andando a ritroso nella sua colossale carriera e nel percorso cronologico della mostra, ecco gli Old Masters, i grandi maestri di Bacon. Su tutti Vincent Van Gogh, di cui troviamo una versione del Il pittore sulla strada per Tarascona ( 1888), un “ fantasma” di cui l’artista inglese dipinge otto reinterpretazioni, proiettandovi le sofferenze dell’artista al lavoro di fronte a una tela. Ma soprattutto ecco le versioni di Papa Innocenzo X dello spagnolo Diego Velázquez, cui Bacon si ispirò ossessivamente per due decenni e in varie versioni. In Study for Portrait ( with Two Owls) del 1963 il pontefice è distorto in modo terrificante, con due civette in primo piano, mentreinStudy for a Pope Idel 1961 è una figura puerile, quasi infantile.
Sia Van Gogh che Velázquez innescano una nuova cromaticità nell’arte di Bacon, sino a quel momento ancora più tetra e scioccante. Si vedano Study for a Portrait eHead IV del 1949, in cui i soggetti sembrano dannati a indicibili pene, mentre urlano dalle bocche spalancate come su una sedia elettrica, richiusi in un criptico cubo di vetro. Sono i ritratti di inizio carriera di Bacon, morto a Madrid nel 1992 e cresciuto in una famiglia inglese agiata, prima di lasciarla a 16 anni per Berlino e Parigi e di votarsi all’arte dopo aver ammirato Picasso. Il filo rosso che unisce le opere è che Bacon raramente dipinge dal vivo i suoi soggetti. Piuttosto, preferisce ispirarsi ai ricordi ma soprattutto alle fotografie raffiguranti opere altrui, amici e soprattutto amanti. Non a caso, alla National Portrait Gallery troviamo eccezionali immagini scattate allo stesso Bacon da giganti dell’obiettivo come Cecil Beaton, Arnold Newman e Bill Brandt. «Dipingere dal vivo mi inibisce » confessava il pittore « se invece lo faccio da solo, ho totale libertà di distorcere le mie opere. E la mia interpretazione non corre il rischio di offendere i soggetti».